sabato 28 dicembre 2013

Un genio, due artisti



Gli anni ’90 vengono considerati da più parti il periodo d’oro della Disney, tanto da essere soprannominati il Rinascimento Disneyano.

Uno dei film più amati, ma che personalmente non sono mai riuscito a farmi piacere, è Aladdin. Sarà che la favola del ladruncolo che vive arrangiandosi e che si innamora ricambiato della bella principessa, stufa del suo status sociale e che tanto invidia la libertà dei suoi sudditi (liberi di morire di fame in una società dove sono le guardie reali le prime a perpetrare ogni tipo di giustizia), è probabilmente un tipo di storia più adatto ad accendere la fantasia delle femminucce che dei maschietti; sarà che Aladdin mi ha sempre dato l’idea del ragazzo problematico, un po’ bulletto e mezzo delinquente (e che piace proprio per questo. Le donne, valle a capire); sarà che verso la fine, quando Jafar si trasforma prima in un serpente e poi in un genio malefico (che riprende nell’aspetto un demone), l’ho trovato troppo crudo per un pubblico di bambini.

Eppure c’è qualcosa che salva questo film, qualcosa per cui vale la pena vederlo almeno una volta. O meglio qualcuno. Mi riferisco al Genio ovviamente, e per l’esattezza al suo, anzi ai suoi, doppiatori.

Negli anni ’90 si è diffusa la prassi in Italia, in America già si usava, di scegliere personaggi famosi per doppiare alcuni dei personaggi delle pellicole Disney.
 
Per il Genio di Aladdin sia in Usa che in Italia si è scelto l’attore più poliedrico, più fantasioso, più estroso e proprio per questo più adatto al carattere irrefrenabile del Genio. Parlo di Robin Williams, il genio americano dell’improvvisazione (a proposito di geni), e di Gigi Proietti, uno dei pochi in Italia a non fare l’attore, ma ad essere un attore (per citare le stesse parole di Proietti). Due veri professionisti, gli unici in grado di rendere davvero lo spassoso Genio, la vera (l’unica) perla del film.

sabato 21 dicembre 2013

Ad ognuno il suo (film di Natale)




In questi giorni, come ogni anno, il palinsesto televisivo si riempie di film natalizi, dall’ennesima storia con protagonista Babbo Natale agli scadentissimi film-tv (di solito relegati al pomeriggio).

Accanto ci sono i classici del periodo delle feste, film che a volte nemmeno parlano di Natale (o lo fanno molto limitatamente), ma che per la gente – chissà perché – fanno Natale. Parlo di film come Angeli con la pistola (stupendo), Una poltrona per due, o l’immancabile replica di Mamma ho perso l’aereo.

E poi ovviamente i film Disney, da Robin Hood a Zio Paperone alla ricerca della lampada perduta (non ricordo un anno in cui la Rai ne ha saltato la trasmissione).

Il fatto è che tutte queste pellicole contribuiscono a creare quella magica atmosfera. Ognuno di noi è legato ad uno o a più film di Natale, perché gli ricordano l’infanzia o perché hanno un significato che solo noi sappiamo.

Se dovessi scegliere, sono due i film di questo periodo che conservo nel cuore.

Il primo è Una promessa è una promessa, pellicola basata esclusivamente sul ritmo sfrenato e sulle gag, con un insolito Arnold Schwarzenegger alla ricerca del giocattolo introvabile che il figlio gli ha chiesto da un mese, ma che lui non si è ricordato di comprare fino all’ultimo giorno. Non è un capolavoro, ma averlo sempre visto con qualcuno a cui hai voluto molto bene, te lo fa sembrare tale.

Poi c’è Miracolo nella 34° strada, il remake del 1994 con Richard Attenborough. È anche merito di questo film se credo ancora nel Natale e, perché no, anche in Babbo Natale, perché, come scopriamo alla fine del film, come è vero che nessuno può dimostrare l’esistenza di Babbo Natale, nessuno può dimostrare che non esista. Meglio scegliere una verità che fa male e lascia freddo nel cuore, o una piccola bugia che accende la speranza?

Guardate il vostro film di Natale, qualunque esso sia, e cercate di mantenere sempre vivo il bambino che c’è in voi, quella parte così fragile e delicata che vi permette di gustare le cose più belle e più semplici. Come il Natale.

Buon Natale a tutti.

lunedì 16 dicembre 2013

Il lento svanire della commedia d'una volta


 
Due giorni fa si è spento uno degli attori che hanno segnato un’epoca ad Hollywood: Peter O’Toole. Irlandese, cresciuto in Inghilterra, debuttò a teatro, passando al grande schermo nel 1960 con la pellicola della Disney Il ragazzo rapito. Una carriera lunga più di 50 anni, eppure il film con cui è maggiormente identificato è uno dei primi che ha interpretato: Lawrence d’Arabia.

Mi piace ricordarlo citando un film del 1966, una divertente commedia a cui prese parte in coppia con la più elegante lady di Hollywood: Audrey Hepburn. La pellicola in questione è Come rubare un milione di dollari e vivere felici. La storia prende spunto dalle stravaganti abitudini di un simpatico ed anticonvenzionale artista (Hugh Griffith, caratterista a dir poco eccezionale) che è solito falsificare opere d’arte prestigiose per poi venderle ai collezionisti, unicamente per il gusto di riuscire ad ingannarli. Nel momento in cui presta ad un prestigioso museo parigino una delle opere in suo possesso, la Venere di Cellini, stimata un milione di dollari, rischia che le sue truffe vengano scoperte, dato che anche la Venere è un falso e che il museo, volendola assicurare dal rischio di furto, provvederà ad una serie di controlli che finirebbero col constatarne la non autenticità. La figlia (Audrey Hepburn) troverà la soluzione: rubare la statua prima che venga analizzata ed intascare dal museo il risarcimento milionario. Per farlo però ha bisogno di un complice, ed ecco che quando nella notte un uomo (Peter O’Toole) s’introduce in casa sua, lei, scambiandolo per un ladro, coglie l’occasione e gli propone il colpo. Lui in realtà è un poliziotto che sta investigando sul padre della giovane, ma sta al gioco, inizialmente per incastrare l’intera famiglia e poi perché s’innamora della bella complice.

Proprio la commedia romantica vecchio stile, con qualche casto bacio e molti sorrisi, così diversa dalle commedie girate oggigiorno, con un ritmo più serrato e la coppia di turno che finisce a letto prima del decimo minuto di film. Il tipo di commedia che non esiste più e verso cui, quando uno degli interpreti lascia questa terra per i Pascoli del Cielo, non possiamo fare meno di provare un pizzico di nostalgia.

sabato 30 novembre 2013

La vita non è una vacanza


 
In questi ultimi tempi si sente solo parlare di economia e di crisi, temi sicuramente d’attualità, ma la nostra vita non può e non deve essere schiava dell’economia e del mercato.

Il dio denaro. È questo l’unico valore. E solo pochi, quantomeno tra coloro che hanno voce in capitolo, urlano al mondo la gravità e l’inumanità di questa situazione. Il pensiero corre subito a Papa Francesco.

Lungi da me dire che il denaro non serve, anzi. Ma è un mezzo, non un fine. Se con quello che guadagni sfami te stesso e la tua famiglia, magari ti togli delle soddisfazioni, riesci pure a comprarti l’ultimo modello di cellulare e l’ipad, ma non riesci a goderti il tempo per stare con i tuoi cari o fare ciò che ti piace, sei il più povero degli uomini.

E parlando di tempo libero, colpisce il differente modo in cui noi italiani ci approcciamo alle vacanze rispetto agli americani. Un lavoratore italiano ha in media diritto a sei settimane di vacanze l’anno; quello americano a due, che spesso nemmeno si prende per paura di trovare qualcuno al suo posto di ritorno dalle vacanze.

Insomma, se l’America è in molte cose avanti a noi, in tema di tutela dei lavoratori ha solo da imparare. Si fa prepotente il ricordo di un film del 2006: Vita da camper. La pellicola racconta la storia di un amorevole padre di famiglia – ruolo ricoperto a meraviglia dall’istrionico Robin Williams – che è costretto a trasformare la vacanza da sogno alle Hawaii che aveva promesso a moglie e figli, in una gita in camper in Colorado. Se non sarà presente ad un incontro con alcuni clienti, il suo capo lo licenzierà. Non potendo raccontare la verità alla famiglia, noleggia il camper e si incammina verso il luogo dell’incontro, “vendendo” ai suoi cari la trasferta come una vacanza.

Ovviamente la verità viene a galla, la famiglia lo perdona e il lieto fine (con nuovo impiego di lavoro) è assicurato, ma quello che fa davvero male è renderci conto come, in questa società dove contano i soldi ma non le persone, per tenersi il lavoro e poter sopravvivere, si debba essere costretti a rinunciare a vivere, nel senso più vero del termine.
 
Se il progresso deve migliorare la qualità della vita, il mondo attualmente non è certo incamminato verso il progresso.

venerdì 29 novembre 2013

Occhio al dettaglio


 
Certe volte è l’attenzione ai minimi particolari a rendere un film particolarmente gustoso. Come il gioco ad incastri tra passato e futuro della trilogia Ritorno al futuro. Intendiamoci: se la storia non ha un valore di per sé, la pellicola può essere curate quanto si vuole, ma rimane un esercizio di manierismo fine a sé stesso.

La grandissima abilità nel destreggiarsi tra i dettagli è uno dei marchi di fabbrica della Disney. Anche qui sono le trame e i personaggi (quasi sempre azzeccatissimi) a farla da padrone, ma certi particolari contribuiscono di certo a colpire il senso di meraviglia del bambino che è in noi.

Di esempi ce ne sono tanti, dagli oggetti che i due topini Bianca e Bernie utilizzano con altri scopi rispetto a quelli umani (come il ditale che per loro diventa una sedia), agli stessi oggetti riciclati quasi con arte dalla banda di Cip & Ciop agenti speciali. Ma in questi casi parliamo un film prodotto alla fine degli anni ’70 e di una serie a cartoni del 1989.

Fa ancora più impressione notare come la Disney prestasse questa maniacale attenzione ai dettagli fin dai primi film. L’esempio che ho scelto è il secondo classico Disney, Pinocchio, uscito al cinema nel 1941.

In parte lontano dalla sensibilità odierna, con alcuni personaggi entrati nell’immaginario collettivo come il Gatto e la Volpe, ha in una delle prime sequenza un esempio delle grandi capacità dei disegnatori che lavoravano per zio Walt. Finito di lavorare al suo burattino, per Geppetto è l’ora di andare a letto. A segnalarglielo è una festosa banda di orologi, tanto diversi e caratteristici. Tutti intonati e sincronizzati, scandiscono l’ora nella casa dell’anziano falegname. Ed è con questa breve sequenza, totalmente inutile alla trame, che la Disney dà sfoggio delle proprie abilità, intrattenendo e mostrando la creatività degli animatori e i frutti che questa può portare.
 
 

mercoledì 27 novembre 2013

Colpevole... d'annoiare



Un thriller avvincente, una scatola di cioccolatini e un comodo e caldo piumone sono un ottimo modo per passare una serate autunnale. Purtroppo non tutto va sempre come dovrebbe. E ti capita che la scatola di cioccolatini sia ormai vuota e che il piumone – che usi da una decina d’anni – non porti più nemmeno tepore. Pazienza. Ma se anche il thriller non si rivela all’altezza, beh… allora è proprio una serata di merda.

Il tipo di serata a cui vai certamente incontro se il film che hai scelto è Colpevole d’innocenza, perfetto esempio di pessimo thriller. Protagonista è Ashley Judd, moglie del classico ricco trafficone. Dopo una notte passata sulla loro barca a vela, al suo risveglio di lui non c’è più traccia. La polizia sospetta che lei l’abbia ucciso e gettato in mare. Arrestata e processata, viene condannata per omicidio e spedita in galera. Dopo aver affidato suo figlio alla propria migliore amica, questa scompare, portandosi via il bambino. In prigione, la povera disgraziata scopre che il marito è vivo e vegeto e se la spassa con la suddetta amica. Dopo aver trascorso sei anni in carcere, ottiene la libertà vigilata e viene affidata al sorvegliante Tommy Lee Jones. Alla prima occasione se la fila, girando in lungo e in largo per il Paese alla ricerca del proprio bambino, inseguita costantemente da quel mastino di Jones.

La storia finisce bene: lei ritrova suo figlio, il marito fedifrago ottiene la punizione che merita e il sorvegliante capisce come stanno realmente le cose.

Il problema è che dopo la prima mezz’ora di film, quando scopriamo che il marito non è morto, la pellicola non riserva alcun colpo di scena. Non solo capisci subito come andrà a finire, ma non ci sono scene di tensione né sorprese nello svolgimento della trama. Insomma, puoi tranquillamente spegnere la tv ed andare a dormire, tanto il meglio c’è già stato (e non è nemmeno stato un granché).

Un film dovrebbe sorprendere costantemente lo spettatore, tenere desta la sua attenzione, ma se a una commedia o ad un film drammatico possiamo perdonare la prevedibilità, in un thriller questo è un peccato capitale.

lunedì 25 novembre 2013

Il gatto che fa i biscotti


 
Il potere che la pubblicità ha su tutti noi è strabiliante ma talmente incontrollabile da sfuggire per primi ai pubblicitari. Lo scopo della pubblicità dovrebbe essere quello di convincere il consumatore a scegliere quel dato prodotto, il problema è che spesso la pubblicità rimane in mente (perché è simpatica, orecchiabile, originale), ma non persuade minimamente all’acquisto.

Alzi la mano chi ha mangiato delle caramelle Big Fruit solo perché ne era goloso il cavallo. Chi ha comprato le cialde Lavazza sperando di raggiungere Brignano in Paradiso lo ammetta. Chi se la fa addosso se non può andare al bagno di Paolo che ha Glade microspray lo dica adesso o taccia per sempre.

Ti ricordi queste pubblicità perché ti colpiscono, travalicando spesso anche il confine del buon gusto come lo scoiattolo scorreggione della Vigorsol o il padre che si toglie la camicia, mostrando fiero il reggiseno e confessando al figlio che non è suo padre ma sua madre (questo della Vivident, a sottolineare come le gomme da masticare siano accomunate dallo scegliere dei pubblicitari idiota)

Il potere della pubblicità è quello di confondere le masse. Quanti figli degli anni ’80 sentendo la Carmen di Bizet esclamano Ma questa è la musica dell’Aiax, mentre sarebbe ontologicamente più corretto il contrario.

Un esempio di quanto sia pregnante la pubblicità, lo dà il film d’animazione Il gatto con gli stivali. Prodotto nel 2011, ha la singolare particolarità di avere per il protagonista – il gatto, ovviamente – lo stesso doppiatore nelle versioni inglese, spagnola e italiana. Sto parlando di Antonio Banderas, interprete di molti film, ma per noi ormai il mugnaio del Mulino Bianco (complice anche l’imitazione che ne ha dato Maurizio Crozza). Insomma, quando vedi un gatto eroe che salta sui tetti e si destreggia con la spada meglio di Zorro ma te lo immagini a parlare con la gallina Rosita di come cuocia i biscotto uno per uno o riempia di crema i Flauti, capisci che la pubblicità nuove gravemente alla salute (mentale).
 

venerdì 22 novembre 2013

Un mito, mille parodie


Se il successo di un’opera si misura anche dalle sue parodie, viene automatico annoverare Casablanca tra i film più amati di sempre.

La pellicola racconta le disavventure degli europei che cercavano una via di scampo dalla persecuzione nazista durante la seconda guerra mondiale. Arrivati in Marocco, a Casablanca, facevano di tutto per impossessarsi dei documenti necessari per prendere un aereo diretto in Portogallo, da cui avrebbero potuto salpare alla volta degli Stati Uniti. Dietro la Storia con la S maiuscola, troviamo la storia d’amore dei due protagonisti, Humphrey Bogart e Ingrid Bergman. Conosciutosi anni prima a Parigi, proprio nei giorni in cui i nazisti occupavano la città, si ritrovano nel locale che Bogart gestisce a Casablanca. Lei ora è sposata con un membro della resistenza ed ha bisogno di documenti falsi per scappare. Lui l’aiuterà, nonostante l’ami ancora, anzi forse proprio per questo.

Bella storia, ma quello che rende il film un capolavoro è l’incredibile quantità di scene da antologia, dalla Marsigliese cantata con orgoglio di fronte ai soldati tedeschi, allo struggente finale all’aeroporto, passando per il notissimo Suonala ancora Sam.

E le parodie di queste scene contribuiscono ad attestarne la grandezza.

Il più diretto è probabilmente Provaci ancora, Sam, che racconta del critico cinematografico Woody Allen, innamorato della moglie dell’amico più caro (Diane Keaton). Ossessionato da Casablanca, incontrerà il fantasma di Bogart che gli insegnerà come far innamorare una donna (peccato che certi atteggiamenti in Bogart sono sexy, mentre in tutti gli altri risultano soltanto maschilisti).

Altra parodia di Bogart e del film, con riferimenti anche ad altre pellicole con Bogie come Il mistero del falco, è A proposito d’omicidi, in cui Peter Falk imita benevolmente il mito Bogart (parodia di cui Falk aveva già dato un gustoso assaggio nel divertentissimo Invito a cena con delitto).

E la parodia ha toccato anche il mondo del fumetto, quando nel 1987 Giorgio Cavazzano, famoso disegnatore Disney, ha raccontato la sua versione della storia, con Topolino nei panni di Bogart, Minni in quelli della Bergman e Pippo in quelli del barista Sam. A dimostrazione di quanto questo film sia realmente universale.

martedì 19 novembre 2013

Alto tradimento



Trasporre un’opera letteraria in un film non è così facile. Quasi sempre ad uscire vincitore dal confronto è il libro (anche perché è solitamente quello dei due che ha visto per primo la luce), e sono numerosi i casi in cui la pellicola delude. Poche volte però il testo viene quasi totalmente snaturato e tradito. Uno di questi, è il moderno Sherlock Holmes.

I due film, interpretati da Robert Downey Jr. nei panni del detective di Baker Street e da Jude Law in quelli del fido assistente Watson, sono come una pugnalata al cuore di Sir Arthur Conan Doyle e dei suoi fan.

Intendiamoci: i due film in sé, non sono male. Se li consideriamo semplicemente dei film d’azione, sono senza dubbio riusciti, con un perfetto equilibrio di azione, ironia e suspense. Ma non è Sherlock Holmes.

Non si respira la classica atmosfera vittoriana dei racconti, Holmes passa la maggior parte del tempo a far cazzotti e a rendersi ridicolo anziché a riflettere e dedurre, i casi tendono – è questo è forse il peccato minore – verso un’eccessiva spettacolarizzazione, centuplicando il livello d’azione presente nei racconti.

Quello che rattrista davvero non è il successo del film, ma le affermazioni entusiastiche di quanti sostengono che finalmente Sherlock Holmes ha trovato un’adeguata trasposizione cinematografica. Ma Holmes era anche in grado di far a botte quando serviva ti dicono, non avendo probabilmente mai letto niente di Conan Doyle ma parlando solo per sentito dire. È vero, Holmes era un provetto spadaccino e boxeur, ma le sue principali caratteristiche erano l’acume e lo spirito d’osservazione. E rarissimamente scendeva alle mani, e solo se costretto.

Ma per loro il vero Sherlock è questo. Povero mondo. A quando un tenente Colombo armato di pistola e con i modi dell’ispettore Callaghan?

domenica 17 novembre 2013

Quando il tarocco arriva in tv


 
Sentiamo sempre più spesso parlare di cibi tarocchi fatti passare per prodotti d’origine controllata. Quando però i tarocchi arrivano anche in tv – e non sto parlando delle carte con cui la Zingara Cloris Brosca giocava anni fa – è veramente desolante.

Mi riferisco alla nuova serie che la Nbc progetta di mettere in cantiere per la prossima stagione televisiva: La signora in giallo. A quasi vent’anni dalla conclusione del fortunato e longevo telefilm , il network americano ha deciso di riproporre il personaggio di Jessica Fletcher.

Scarsità di buone idee? Probabile. Cosa c’è di meglio quindi che ripiegare sul remake di un prodotto di successo? Del resto Jessica Fletcher nasceva come la versione anni ’80 di Miss Marple, e il tipo di storie raccontate in ogni episodio ripercorre lo schema classico del giallo alla Agatha Christie. Niente di nuovo sotto il sole insomma.

Il problema è che, seppur gialli come questo non passeranno mai di moda, la nuova serie rischia di essere la brutta copia di quella con Angela Lansbury. L’attrice che dovrebbe ereditare il ruolo è Octavia Spencer, dato che la Lansbury – che ha 88 anni ma fa ancora teatro – ha rifiutato di riprendere il ruolo che le ha portato fama mondiale. Non si può darle certo torto, tenendo conto dei massacranti ritmi di lavorazione delle serie americane, troppo impegnativi per una donna della sua veneranda età.

Quello che lascia più perplessi è lo stravolgimento a cui la serie sarà sottoposta. La protagonista sarà di vent’anni più giovane di quanto lo era la Lansbury all’inizio della serie. Non sarà un’insegnante in pensione che sfonda nella scrittura, ma l’amministratrice di un ospedale (e questo fa tanto Un detective in corsia) che pubblica un libro pagando di tasca sua.

Quello di cui gli autori sembrano non rendersi conto è che il pubblico immagina Jessica Fletcher come un’anziana signora con una perfetta permanente. Dico di più: per gli spettatori – che apprezzino La signora in giallo o meno – Jessica Fletcher è Angela Lansbury. Come il tenente Colombo è Peter Falk. Come Perry Mason è Raymond Burr.

Ah, già: si parla anche di una nuova versione di Perry Mason con Robert Downey Jr. nei panni dell’avvocato del diavolo. Della serie non c’è fine al peggio.


 
 
 

mercoledì 13 novembre 2013

Un gioiellino del piccolo schermo


 
Fare televisione di qualità senza perdere di vista l’obbiettivo centrale: intrattenere il pubblico. In America sanno come fare, ed è così che nascono telefilm girati, scritti e recitati con quasi la stessa cura con cui vengono prodotti i kolossal cinematografici. Una di queste perle del piccolo schermo è sicuramente Harry’s law, in onda ogni domenica su Top Crime, la nuova rete Mediaset dedicata ai polizieschi e ai gialli.

Il genere a cui la serie appartiene è il legal drama. Al centro delle vicende c’è l’avvocatessa Harriett Korn, detta Harry. Dopo esser stata licenziata dal prestigioso studio legale per cui lavorava, Harry apre uno studio tutto suo in uno dei quartieri più problematici di Cincinnati.

Stravaganze a parte (lo studio si trova all’interno di un negozio di scarpe), il telefilm miscela dramma e ironia, raccontando più storie in ogni episodio. Il lieto fine non è garantito, ed è forse questo uno degli elementi che rende la serie particolarmente credibile. Le vicende passano dal giallo al grottesco, non disdegnando di toccare alcuni dei temi più d’attualità come la crisi economica e la ritrosia dell’americano medio di accollarsi il peso dei più deboli, tema caldissimo dopo la riforma sanitaria voluta da Obama.

Quello che però dà valore al telefilm, sono gli interpreti. Su tutti spicca la protagonista, Kathy Bates, che non sarà miss Universo, ma che potrebbe dare lezioni ad attrici strapagate come Angelina Jolie, Kristen Stewart o Jennifer Aniston. La sua bravura non è certo una sorpresa, ma vederla all’opera su un personaggio tosto e ben scritto come Harry Korn, è sempre un piacere.

Degno di nota anche Christopher McDonald, nei panni di Tommy Jefferson, l’avvocato che chiunque vorrebbe potersi permettere, con una morale tutta sua ma in fondo buono e generoso, anche se non vuole darlo a vedere.

Una serie che dimostra che non c’è bisogno di andare al cinema per trovarsi di fronte ad un prodotto di pregevole qualità.

 

martedì 12 novembre 2013

Quel che non ti aspetti


 
Capita che un film parte come una commedia per poi cambiare registro circa a metà della storia, virando sul drammatico, il thriller e perfino l’horror. L’aggettivo che meglio definisce pellicole del genere è disturbanti. Di esempi ce ne sono a iosa, da La guerra dei Roses, che comincia come una favola d’amore dolcissima e appassionata, a Rosemary’s baby, che sembra nelle prime scene la semplice storia di una coppia di neosposi.

Uno dei film che meglio sintetizza questo genere è forse Le streghe di Eastwick. In un paesino di provincia del New England, apparentemente tranquillo e pacifico, l’emblema della famiglia, dei (falsi) buoni sentimenti e dei valori di una volta, vivono tre donne sole. Le donzelle – interpretate da Michelle Pfeiffer, Susan Sarandon e Cher – non sanno di essere delle streghe, anche se noi lo intuiamo fin dalla prima scena (nonché dall’esplicito titolo), quando un temporale interrompe il noiosissimo discorso del presidente della scuola, realizzando un loro desiderio inconscio. Immaginando l’uomo dei loro sogni, finiscono con l’evocare senza rendersene conto il diavolo (Jack Nicholson, nato per questa parte) che le sedurrà, dando vita con loro ad una specie di comune. Una commedia, con battute vivaci da guerra dei sessi. Per il primo tempo.

È al giro di boa che il film si trasforma quasi in un horror, con il diavolo che uccide la pettegola del paese per mano del maritino. Le streghe capiscono la sua pericolosità e lo rifiutano, ma lui usa le loro più intime paure contro di loro. Ma sì sa che le donne ne sanno una più del diavolo ed è per questo che nell’orrifico finale avranno la meglio.

domenica 10 novembre 2013

Riso e pianto


 
Un attore è un professionista in grado di calarsi in panni diversi di volta in volta, capace di trasmettere un’ampia gamma di sensazioni grazie alla propria espressività facciale e corporale, ma soprattutto in grado di provocare nello spettatore delle emozioni.

Vien da sé che è esclusività dei più bravi riuscire a divertire e commuovere altrettanto bene. E sorprende piacevolmente scoprire in un attore che siamo abituati a vedere in una veste comica, una capacità drammatica eccezionale. È il caso di Claudio Bisio.

Bisio, per molti solo il mattatore di Zelig, è molto di più. Un attore completo, preparato, divertente ma anche profondo ed umano.

Ho scelto come esempio Ex, uno dei film più riusciti di Fausto Brizzi, ed in particolare una delle scene più toccanti. Bisio è un professore di psicologia dongiovanni, profondo conoscitore della teoria quanto incapace di applicarla nella vita di tutti i giorni. Quando l’ex moglie muore in un incidente stradale, si trova a dover crescere le due figlie che erano state affidate alla consorte. Vittima della sua stessa inadeguatezza, scopre dalle parole delle figlie che l’ex moglie non aveva mai smesso di amarlo e che, dopotutto, anche lui l’amava ancora. Tornato nella casa abbandonata in cui viveva la donna, trova i regali di Natale degli ultimi sette anni che lei, nonostante fossero separati, continuava a comprargli, sperando che un Natale o l’altro tornasse all’ovile. Ed è grazie agli occhi lucidi di Bisio e a quei regali così quotidiani e allo stesso tempo straordinari (su tutti il nanetto Dotto), che percepiamo i sentimenti di un uomo innamorato rimasto solo.
 

Ciccibelli



 
Grasso è bello, recita un detto popolare. Non so se sia vero, ma certamente grasso è simpatico. I ciccioni – e non c’è alcun intento offensivo nel definirli così – sono allegri, divertenti, amano la vita e i piaceri che questa è in grado d’offrire. Pensate al dolce sguardo di Papa Giovanni XXIII o alla fulminante ironia di Gigi Bramieri. Avete mai visto un ciccione triste e arrabbiato con il mondo? D’accordo,c’è Giuliano Ferrara, ma è l’eccezione che conferma la regola.

Si sta concludendo proprio in questi giorni su Italia 1 la seconda stagione di un telefilm per taglie forti: Mike & Molly. Lui poliziotto, lei maestra elementare, si conoscono ad una riunione degli obesi anonimi. Si piacciono, si innamorano, si mettono insieme. Il loro peso (s)forma è solo il pretesto per raccontare la quotidianità di una coppia dei giorni nostri, con una serie di simpatici e ben caratterizzati comprimari, dalla sorella un po’ zoccola di Molly, al compagno di pattuglia di Mike, perennemente infoiato e sempre in cerca di compagnia femminile.

Ad interpretare i protagonisti, due caratteristi bravi e preparati: Billy Gardell, che si è fatto strada come comico-cabarettista, collezionando piccole apparizioni in svariati telefilm, e Melissa McCarthy, che ha già ottenuto una candidatura all’Oscar come attrice non protagonista per Le amiche della sposa.

Quello che rende particolare questo telefilm è una cosa tanto banale quanto ormai non più scontata: l’esistenza di una trama. La maggior parte delle sit-com contemporanee sono solo una raccolta di gag una dietro l’altra. Divertenti, a volte anche geniali, ma solo gag. Non c’è una vera storia in quei 23 minuti, solo una vaga pretesa di filo logico. In Mike & Molly non è così.

I due “falsi magri” riescono a divertire puntando molto sull’autoironia, a dimostrazione che non c’è niente come la gioia di vivere e l’appagamento del piacere (in questo caso mangereccio) per essere felici. Alla faccia dei fanatici della bilancia.

sabato 9 novembre 2013

Ma ce n'era proprio bisogno?


 
Un altro blog! E non solo: un altro blog che parla di cinema, uno degli argomenti più inflazionati in rete! Ma davvero serviva? Se ne sentiva veramente la necessità? L’Umanità ne richiedeva seriamente la realizzazione?

Probabilmente no. Anzi, indubbiamente no.

Ma dopotutto, sono davvero necessari ai cani i cappottini per cani? Ha cambiato la vita a qualcuno l’invenzione dei tandem? Hanno veramente un senso le ciglia finte? Le tazze con i faccioni di Kate Middleton e di William, realizzate in occasione del royal marriage, hanno migliorato la vita di qualcuno? No, eppure queste cose esistono, perché allora non dare una chance di vivere anche a questo neonato blog?

In queste pagine si parlerà principalmente di cinema e di serie televisive, come del resto il nome lascia facilmente intuire. E lo si farà con la consapevolezza che nessuno ha la Verità in tasca. Consigliare o sconsigliare (cosa a volte ancora più preziosa) un film, è sempre soggettivo, che che ne dicano esperti e critici affermati. Il criterio alla base riguarderà quello che un film lascia allo spettatore dopo la visione. Non penso che un film debba per forza parlare di valori universali o del senso della vita. Penso semplicemente che se quando scorrono i titoli di coda ci ha lasciato un buon sapore in bocca, come farebbe una lasagna fumante, beh… quello è un film che è valsa la pena vedere. E vale anche per i telefilm, anche se già anticipo che saranno le cosiddette serie vintage a fare la parte del leone.

Ma questo blog sarà anche l’occasione per riflessioni a più ampio raggio, per cercare di capire meglio questo nostro mondo e soprattutto noi stessi, per parlare della visione che ognuno di noi ha delle grandi cose, dei grandi ideali, della vita, e delle piccole cose, quotidiane e forse per questo più importanti. Perché cinema e telefilm devono il loro successo proprio a questo: ci parlano di noi.