sabato 25 gennaio 2014

Le città del cinema


 
Qualche anno fa, di ritorno dal suo primo viaggio a New York, Jovanotti dichiarò che vedere la città era stato come un déjà vu, gli sembrava di conoscerla da sempre. Il motivo è semplice: New York è una delle città in cui sono stati ambientati moltissimi film e telefilm. La sensazione che si prova andando a New York o a Los Angeles (l’altra città-set) non si prova in nessun altra città del mondo.

Pur risultandoci entrambe familiari, le due metropoli sono molto diverse tra di loro e lo testimoniano anche le pellicole e le serie tv che vi sono ambientate.

New York è più romantica, con le coppiette sedute sulle panchine del Central Park e il tramonto che si riflette sui vetri dei grattacieli. Moltissime le storie d’amore che ha raccontato, da Colazione da Tiffany a Ghost.

Percepita dagli americani e non solo come la città americana per eccellenza, è il set preferito per i film catastrofici, da King Kong a Armageddon.

New York però è soprattutto la città simbolo della vita frenetica dei nostri giorni. Non per niente Woody Allen, il regista che meglio ha messo in scena le nevrosi contemporanee, l’ha scelte innumerevoli volte per ambientare i suoi film.
 

Los Angeles deve alle sue magnifiche spiagge, al mare che tutti gli amanti del surf sognano e al sole che la bacia quasi tutto l’anno il suo successo. Se a New York rende a meraviglia il festoso clima natalizio (come in Miracolo nella 34° strada) o i colori autunnali (come nel drammone Autumn in New York con Richard Gere), Los Angeles è la città dell’estate.

Location da sogno, è nell’immaginario collettivo la città delle star, tanto che sono molte le pellicole che raccontano il mondo del cinema, da La morte ti fa bella a Ed Wood. Allegra e colorata, è diventato il set ideale per storie d’amore come Pretty Woman che vogliono divertire oltre che commuovere, e per thriller come Hollywood homicide, dove la tensione è stemperata dai bellissimi scenari.

E per non parlare dei telefilm che hanno ancora di più reso l’identità delle due città, dalla New York modaiola di Sex and the city o preda del crimine di NYPD – New York Police Department, alla Los Angeles solare di Baywatch o patinata patria di attori e registi, guest star di tanti gialli, dal tenente Colombo a Un detective in corsia.

domenica 19 gennaio 2014

Il valore della diversità


 
Ci sono persone che vorrei o avrei voluto conoscere (nel caso l’interessato non sia più tra i vivi). Quello che mi intriga e attira è la loro genialità, la loro complessa visione della vita, la loro filosofia. Uno di questi è Tim Burton.

Non sono un suo fan, ma apprezzo e scorgo nei suoi film una sensibilità unica, un modo di intendere il mondo che è evidente in quasi tutti i suoi lavori.

Burton è il regista che meglio ha tratteggiato il tema della diversità. Da Edward, creatura costruita da un anziano inventore (Vincent Price, il re dell’horror anni ‘50) che si ritrova due forbici al posto delle mani perché il suo creatore muore prima di finirlo, alla sposa cadavere uccisa il giorno del suo matrimonio e rimasta in bilico tra il mondo dei vivi e dei morti. Il diverso per Burton è una vittima che spesso finisce col diventare un colpevole. Additato come un mostro, finisce proprio per questo col diventarlo, come la sua personale visone del Pinguino in Batman – Il ritorno che, abbandonato nelle fogne dai suoi stessi – inumani – genitori, dedica la vita a progettare la vendetta: rapire e uccidere i primogeniti di tutte le famiglie di Gotham City, privandoli di quello di cui anche lui è stato privato.

C’è una gran solitudine nei suoi eroi, sono estraniati dalla realtà e si ritornavano a non avere legami, vivendo in un mondo che non è il loro, come il vampiro Barnabas nel recente Dark Shadows, sepolto vivo nel Settecento e riportato alla luce negli anni ’70 dello scorso secolo.

Come molti altri registi, Burton ha una ristretta cerchia di attori che utilizza con frequenza, probabilmente perché sente le loro interpretazioni affini alla sua sensibilità, da Johnny Deep a Micheal Keaton, da Martin Landau alla moglie Helena Bonham Carter.

Insomma, non è possibile vedere un film di Burton senza notare la sua mano dietro la macchina da presa, dalle atmosfere gotiche e cupe all’humor nero, passando per la continua presenza della morte. Ed è proprio la capacità di imprimere la sua impronta in ogni lavoro, ciò che rende un regista un artista.

giovedì 16 gennaio 2014

Il triste addio alla giovinezza


 
La musica è un elemento portante del cinema ed è ovvio che quando si parla di musical, la colonna sonora diventa il principale parametro di giudizio.

Il musical. Un genere che conta tanti estimatori quanti detrattori. E il motivo è presto detto: molti spettatori vivono le canzoni come un’interruzione della storia, un qualcosa che rallenta la trama. In realtà è così solo quando un musical è mal scritto. Le canzoni hanno lo scopo opposto: quello di accelerare le narrazione, raccontando in pochi minuti parti che altrimenti prenderebbero almeno mezz’ora. Hakuna Matata ne Il Re Leone è un ottimo esempio: racconta in soli quattro minuti la crescita di Simba e il suo passaggio dall’infanzia all’età adulta.

La cattiva reputazione che il musical si trascina dietro deriva dai molti film del genere in cui la parte cantata e quella parlata non sono ben bilanciate. Se ad un certo punto vi ritrovate a pensare Oddio, non un’altra canzone! Che motivo c’è anche adesso per cantare?, il musical a cui state assistendo non è certo un capolavoro.

Se dovessi scegliere un solo musical da consigliare, opterei senza ombra di dubbio per Mamma mia!. La storia è commovente e leggera allo stesso tempo, si ride e si piange (come in ogni vero capolavoro), e la firma degli Abba dà alla colonna sonora un valore aggiunto. Un ottimo musical però si distingue anche per il valore intrinseco delle canzoni e Mamma mia! non fa eccezione.

Una di quelle che mi colpiscono maggiormente è Our last summer (La nostra ultima estate). È il momento in cui Pierce Brosnam, Colin Firth e Stellan Skarsgård raccontano alla figlia della donna che hanno amato in gioventù, la loro estate d’amore. Struggente perché l’ultima prima di diventare adulti grigi e responsabili, l’ultima con la spensieratezza della gioventù e con una grossa verità tra le strofe: sotto sotto avevamo paura di volare, di invecchiare, di morire lentamente. Ci provammo, come se stessimo ballando la nostra ultima danza . Perché quando un film ci parla di noi e della vita, diventa poesia.
 
 

martedì 14 gennaio 2014

E' un mondo di ratti


 
I film d’animazione, Disney in testa, hanno spesso avuto per protagonisti animali. Antropomorfizzare gli animali, rendendoli simili all’uomo nell’aspetto e nell’carattere, è il modo migliore per raccontarci e per mettere in scena le nostre debolezze, perché ci permette di prendere le distanze da noi stessi. Non è un caso se il film Disney che meglio tratteggia buoni e cattivi sentimenti, sensi di colpa e colpa reale, coraggio e meschinità umane, sia Il Re Leone, uno dei pochi ad impiegare solo personaggi animali.

Curioso come l’animale che è stato più spesso impiegato sia uno di quelli più odiati nella vita reale: il topo. Tantissimi i topolini apparsi nei film d’animazione, da Timoteo, il dolce e saggio consigliere dell’elefantino Dumbo, ai simpatici Giac e Gas Gas, i piccoli amici di Cenerentola.

Negli anni ’80 e ’90, i topini sono stati promossi dal ruolo di comprimario a quello di protagonista, con Bianca e Bernie, impegnati a salvare una bimba rapita e nel sequel Bianca e Bernie nella terra dei canguri un bambino australiano catturato da uno spietato cacciatore. La tendenza prosegue con Basil l’investigatopo, parodia di Sherlock Holmes, fino ad oggi, con il topo-cuoco Rémy di Ratatouille.

Un’ulteriore dimostrazione di quanto siamo strani noi esseri umani:i topi veri ci fanno schifo, ma nei cartoni tifiamo per loro. Certo, i topi dei cartoni non puzzano, si vestono come noi e non portano malattie. Potenza dell’immaginazione. E nell’elenco dei topi animati, non dobbiamo dimenticare Topolino, il capostipite della categoria, perché, come amava ricordare Walt Disney, tutto è cominciato con un topo.

lunedì 13 gennaio 2014

Le risate hanno i capelli bianchi


 
Il film comico è uno dei generi più sottovalutati. Tutti riconoscono il valore di un film drammatico, ma davanti a una pellicola che si propone uno scopo puramente ludico hanno un atteggiamento di sdegno e indifferenza, come se ridere non fosse una delle cose più piacevoli della vita.

Naturalmente ci sono film comici ben fatti e immonde ciofeche, come per ogni altro genere. Il problema è che questo per gli altri generi è solitamente accettato, mentre se si definisce capolavoro un film comico si viene guardati come degli alieni.

Due degli attori che ho sempre trovato estremamente divertenti sono Leslie Nielsen e Steve Martin. Associarli per molti è automatico, eppure ci sono sostanziali differenze tra i due. Steve Martin ha un’espressività molto accentuata, non esita a cimentarsi in facce totalmente stravolte, come in Sperduti a Manhattan, quando assume accidentalmente della droga. La forza di Nielsen sta invece nella sua imperturbabilità: un’espressione seria, composta, che stride con le assurdità che i suoi personaggi combinano e che fa ridere proprio grazie a questo contrasto. Perché la differenza principale è che Nielsen ci crede alle boiate che dice e che fa, ed è questo che rende i suoi personaggi così memorabili, tanto che perfino Martin ha provato a cimentarsi in ruoli che ricordavano molto quelli del collega, come la sua versione dell’ispettore Clouseau ne La pantera rosa.

Non è che i personaggi di Martin siano meno folli; il fatto è che Steve Martin interpreta un folle in un mondo sano (tanto che gli altri lo additano come un soggetto pericoloso o poco raccomandabile), mentre Nielsen è un folle in un mondo di folli, come nella celebre saga di Una pallottola spuntata in cui il suo capitano e i suoi colleghi non sono certo meglio di lui.

Andando per l’ennesima volta controcorrente, Una pallottola spuntata non sarà epico come Via col vento, non sarà passato alla storia come Casablanca, non sarà un cult come Grease, ma per me rimane un capolavoro al di sopra dei film citati.

giovedì 9 gennaio 2014

Rendi dolce la vita


 
Uno degli aggettivi che sceglierei per definirmi è edonista. Gustarsi la vita per me è la cosa più importante. Quando sento dire, dai, la cosa più importante è la salute, replico che la salute un giorno o l’altro ti abbandonerà, e a quel punto quello che avrà importanza non sarà quanto tempo sei stato in salute ma se sei riuscito a goderti quel tempo. Naturalmente ognuno se lo gode a modo proprio.

Un film che ben analizza piacere e rinuncia è Chocolat. La pellicola, ambientata nella Francia degli anni ’60, racconta la storia della bella pasticcera Juliette Binoche che si trasferisce in un piccolo paesino per aprire una cioccolateria. Si scontrerà con i benpensanti del paese, sindaco in testa, che la vedono come una peccatrice sia perché ha aperto la sua cioccolateria in piena Quaresima, sia (e soprattutto) perché ha una figlia a carico pur non essendo sposata. Lo scontro tra i presunti cristiani (in realtà meri bigotti) e la libertà da convenzioni e regole sociali abbracciata dalla protagonista e dal gitano Johnny Deep di cui la cioccolataia si innamorerà, ti accende e ti fa immedesimare. Se fossi stato lì, avrei dato un calcione nel sedere del sindaco, che, tra una pratica amministrativa e l’altra, aveva anche l’ardire di correggere le prediche del pretino di campagna che, appena arrivato, insicuro e piegato al potere, gliele sottoponeva, rispettando alla lettera le molte correzioni fatte dal Primo Cittadino.
 
La Binoche pian piano “corrompe l’anima” dei benpensanti, insegnandoli a indugiare nel piacere del cioccolato (e non solo), perché un buon cristiano – e un buon uomo in sé – non si misura da quello a cui rinuncia, ma da quello che dà al prossimo. E allora meglio godersela, perché se a vivere la vita con gioia non lesinando i piaceri che la vita può offrire si muore, a non farlo si muore dopo ma si vive di merda.

mercoledì 8 gennaio 2014

Nato per perdere


Ci sono rivalità che durano per sempre, al punto che l’idea di una vita senza la propria nemesi diventa quasi inaccettabile. Ci sono personaggi che non è quasi possibile nominare senza pensare allo stesso tempo al loro avversario, come Stephanie e Brooke di Beautiful, James Bond e Blofeld (il capo della Spectre), Topolino e Gambadilegno.

Se normalmente il pubblico tifa per il buono, ci sono casi in cui, per quanto sembri assurdo, è più facile empatizzare con il cattivo. Rientrano tra questi alcuni dei cartoni che hanno divertito generazioni dei bambini, come Tom e Jerry, Titti e Silvestro, Willy il Coyote e Beep Beep.

E’ uno scontro epico, nato agli albori del mondo, quello tra preda e predatore. Il motivo del successo è il rovesciamento della prospettiva: Tom, Silvestro e il Coyote sono più grandi e più forti, ma le loro prede riescono sempre ad avere la meglio su di loro, facendoli diventare da vittime carnefici. Jerry è astuto come una volpe (pur essendo un topo); Titti dietro quell’aria da innocente e puro, è un delinquente di prima categoria che non esita a farne passare di tutti i colori a Silvestro; Beep Beep è più fortunato di Gastone: ogni volta che c’è un crepaccio lui corre talmente veloce da attraversarlo arrivando dall’altra parte, mentre il Coyote cade miseramente.

Paradossalmente sono i cacciatori quelli che fanno pena, soprattutto perché le loro prede godono dello status di vittime pur essendo tremendamente agguerriti. Ed ecco che quasi quasi speri che il Coyote lo catturi quell’antipatico Road Runner (nome originale di Beep Beep). Ma non può. E non perché il cattivo non può vincere, ma perché se riuscisse a prenderlo il cartone finirebbe e con esso il nostro divertimento, ma soprattutto perché la sua vita non avrebbe più senso.

È questa la paradossale situazione in cui si trovano i nemici: se riescono nel loro intento e realizzano lo scopo della loro vita, non gli resta più niente. Perché, dopotutto, due avversari preferiscono continuare l'eterna gara nella quale ognuno dei due vuole disperatamente arrivare primo. Però, se uno dei due s'attarda, l'altro lo aspetta. Per continuare assieme il lungo viaggio fino al traguardo della vita, come recitava il poetico finale di un film con Don Camillo e Peppone.

martedì 7 gennaio 2014

Com'è umano lei!


 
Si sa che il pubblico ha bisogno di eroi, personaggi positivi per cui parteggiare e tifare, come Batman, l’Uomo Ragno o Superman. E si sa che ogni eroe ha bisogno della sue nemesi che sarebbe poi per il pubblico il personaggio su cui sublimare l’odio e l’ostilità che si accumula nella vita quotidiana. Ci sono però anche personaggi che nascono con il solo scopo di divertire il pubblico e che – paradossalmente – ci riescono mostrando tutta la loro antipatia.

È il caso di Sheldon Cooper, uno dei protagonisti più riusciti del telefilm The Big Bang Theory. Sheldon, interpretato dal perfettamente allampanato Jim Parsons, è uno dei quattro scienziati che compongono il cast della serie. Apparentemente geniali, i protagonisti sono in realtà nerd all’ennesima potenza, la dimostrazione di quanto avere un mare di nozioni sia in realtà inutile se non sai vivere.

Sheldon è il personaggio che ha più successo, tanto che il suo interprete con questo ruolo ha vinto ben tre Emmy Awards. E il motivo è presto detto. Sheldon è egoista, preso da se stesso, incurante dei bisogni altrui. Tutti abbiamo un amico, un parente o un conoscente che ce lo ricorda. Ma soprattutto quello che colpisce di Sheldon è la totale inumanità. Quei pochissimi gesti di gentilezza che fa, sono dettati unicamente da regole sociali che cerca di apprendere e a cui si piega per un più efficiente funzionamento della società. Mai un gesto di cuore, una parola buona che non sia solo formale. Sembra quasi che Sheldon non ce l’abbia proprio un cuore.

Ed ecco che quando il suo coinquilino Leonard è triste o malato o altro ancora, Sheldon ha pronta da offrigli una bevanda calda per ogni circostanza, dal the alla cioccolata. Convenzione sociale che Sheldon cerca di seguire, nulla più, e lo dimostra il fatto che se l’interessato risponde che la bevanda non gli va, Sheldon replica: devi berla! Non è una scelta.

A vivere con uno così c’è da diventare matti. Chiunque lo ammazzerebbe dopo cinque minuti nella vita reale, ma in un telefilm ci fa ridere e divertire. Come ci colpisce l’umanità, in modo opposto ma altrettanto efficace ci disarma l’essere inumano di Sheldon, che paradossalmente ci fa affezionare a lui.

lunedì 6 gennaio 2014

Il paradosso del classicismo


 
Tutti ricordiamo (o dovremmo ricordare) di aver studiato a scuola lo scontro di due correnti artistiche quasi contemporanee: il classicismo e il romanticismo. Mentre i sostenitori del primo ritenevano che l’arte classica fosse l’apice raggiunto dall’Umanità e che gli artisti non potessero far altro che cercare di imitare il modello, i romantici ritenevano che l’arte dovesse sgorgare dall’emozione e che riprodurre l’arte classica non fosse fare davvero arte perché quei sentimenti che l’avevano ispirata non c’erano più.

Qualche giorno fa ho visto il nuovo film della Disney, Frozen – Il regno di ghiaccio, e devo ammettere di averlo trovato piuttosto deludente.

Saranno i personaggi animati in CGI che sembrano di plastilina, saranno le canzoni non esattamente memorabili scritte dalla coppia Kristen Anderson-Lopez e Robert Lopez, sarà che il cattivo di turno, il principe Hans, è il peggior villain mai visto sullo schermo. Tutti questi elementi di certo non depongono a favore del film, ma in realtà il suo vero difetto è essere senz’anima.

Sulla carte Frozen è perfetto. Una fiaba classica e toccante, come quelle portate sullo schermo tanti anni fa con Cenerentola e Biancaneve o più recentemente con La Sirenetta e La bella e la bestia. Ma il fatto è che gli anni di quei film sono passati e la sensibilità del pubblico e della Disney stessa è cambiata. Non è possibile replicare i fasti dei primi film Disney ed è con questa consapevolezza che negli anni ’90 la Disney ha prodotto pellicole di enorme successo come Il Re Leone e Il Gobbo di Notre Dame. Magnifici quanto i primi film, ma in modo diverso.

L’altra sera ho visto Ratatouille, la pellicola Disney-Pixar che racconta le disavventure del topolino-cuoco Rémy. Estremamente diverso rispetto ai film che ho citato, ma quasi altrettanto gradevole. Perché rispetta quella che è la sensibilità del momento in cui è stato prodotto, ed è questo a far sì che un film abbia un’anima e non sia una mera riproposizione di sentimenti passati.

Questo è il difetto alla base di Frozen, il paradosso del classicismo: anziché andare avanti, cercare di riproporre qualcosa che, seppur magnifico,è ormai passato e quindi irraggiungibile.

sabato 4 gennaio 2014

Realtà e finzione


 
Il lutto che nell’anno appena terminato ha certamente più colpito l’intero mondo è la morte di Nelson Mandela, uno dei pochi ad essere diventato un mito ed un icona quando era ancora in vita.

Non ho l’autorità e nemmeno la conoscenza per scrivere un epitaffio di Mandela, e del resto non è questo lo scopo di questo blog. Quello su cui mi voglio soffermare è la potenza con cui cinema e televisione raccontano la vita dei grandi uomini.

La vita di Mandela era realmente una vita da film, e difatti sono molte le pellicole che raccontano la figura del grande statista sudafricano. Su tutti spicca Invictus, con Morgan Freeman nei panni di Madiba.

La trama racconta di come Mandela uso il potere dello sport per unire il suo popolo, cogliendo al volo l’occasione che la storia gli stava fornendo: la coppa del mondo di Rugby del 1995.

Confesso che quando ho appreso della morte di Mandela, il primo viso che mi è apparso dinnanzi agli occhi non è il suo, ma quello di Morgan Freeman.

Questo è il potere del cinema e della televisione. Raccontano una storia presa dalla realtà, e finiscono col dare la percezione che sia più reale della realtà stessa.

È come se avessimo bisogno di una rappresentazione della realtà per innamoracene. Questo accade soprattutto in televisione, dove la fiction di turno racconta la vita dei grandi uomini del passato. Certamente ha un senso narrare la biografia di persone che non abbiamo conosciuto perché morte prima che nascessimo. Ma voler raccontare la vita di chi è ancora in vita, è la prova di quanto sia diventata più importante la rappresentazione rispetto alla realtà stessa. Sembra che questo mondo preferisca una copia all’originale, anche quando l’originale è ancora fortunatamente a disposizione.