domenica 16 novembre 2014

Io no spik inglish... ma siamo in tanti



Quest’estate lo sciopero dei doppiatori ha riacutizzato l’eterna polemica tra sostenitori del doppiaggio e puristi che vorrebbero film e telefilm trasmessi in lingua originale.

Sperare come molti fanno in un abbandono del doppiaggio è completamente idiota. È un comportamento radical chic, non da intellettuale bensì da intellettualoide. Questa gente sostiene che, doppiando, intere frasi e addirittura intere sceneggiature vengono travisate, le sfumature si perdono, la capacità degli attori non viene percepita completamente.

Hanno ragione. Quasi nessuno sa che Morgan Freeman ha una voce profonda e sexy e che in originale Whoopi Goldberg non parla squittendo. Ed è verissimo che certe frasi, in particolar modo i giochi di parole, si perdono (gli indovinelli di Riddler nel telefilm di Batman degli anni ’60 con Adam West ne sono un ottimo esempio). Provate infine a pensare alla ricchezza di significati di una singola parola. Ne Il Re Leone, nella canzone Sarò re cantata dal cattivo Scar, alle iene che gli domandano E noi che faremo?, lui risponde Voi seguite il maestro, in originale Listen to teacher. La traduzione di teacher in maestro è filologicamente perfetta, eppure si perde una sorta di richiamo alla scuola presente nel testo originale, come se Scar stesse tenendo una lezione alle iene.

Però… Tutte queste sfumature le coglie solo chi conosce la lingua. E in Italia, checché ne dicano i sostenitori della lingua originale, molti in inglese non vanno oltre al The cat is on the table, e non parliamo di altre lingue. Ma ancora più importante, per recepire queste sfumature, la capacità recitativa degli attori (quando non si conosce la lingua, sembra che tutte le frasi vengano pronunciate con lo stesso tono) e i sottointesi di una particolare frase, bisogna conoscere la lingua che si sta ascoltando bene quasi quanto la propria lingua madre. E sono convinto che nemmeno l’1 per cento di questi puristi conoscano così bene l’inglese.
 
E allora, meglio perdere qualche sfumatura che perdere tutto, perché è questa la situazione in cui si trova in realtà chi non conosce la lingua.

domenica 9 novembre 2014

Fino all'ultimo momento



Un buon thriller dovrebbe tener attaccato lo spettatore alla sedia fin all’ultimo istante. Non è per forza necessario il colpo di scena finale, a volte spiazzante come ne La donna che visse due volte, altre alla base del senso del film (come Il sesto senso), altre ancora in parte intuibile ma sicuramente ansiogeno come High Crimes – Crimini di stato. Sono invece indispensabili svariati colpi di scena nel corso della storia. Una trama troppo lineare, senza sorprese e con uno svolgimento prevedibile, distoglie attenzione. È naturale che in un thriller si alternino momenti di tensione a momenti relativamente più tranquilli, per lasciar tirare un sospiro di sollievo allo spettatore e dare un equilibrio alla narrazione, ma è anche logico che più intense e numerose saranno le scene di tensione, più il film incarnerà a pieno titolo la definizione di thriller.

Uno tra i thriller più ansiogeni (e per un thriller, questo ovviamente è un complimento) è The Game – Nessuna regola. La storia ruota intorno al ricco uomo d’affari Nicholas Van Orton (Michael Douglas), ossessionato dal ricordo del padre, suicidatosi buttandosi dal tetto di casa quando lui era ancora piccolo. Per il suo compleanno il fratello Conrad (Sean Penn) gli regala l’iscrizione ad un esclusivo club di giochi di ruolo per movimentare la sua noiosa e monotona vita. Da quel momento l’esistenza del protagonista diventa un vero e proprio incubo. Un gigantesco complotto in cui sembra essere coinvolto chiunque, mette in pericolo il suo lavoro, le sue finanze e la sua stessa vita.

La sede del club di giochi di ruolo (che Van Orton capisce essere la copertura per un giro di ricatti e truffe) è abbandonata e la polizia non crede al suo racconto. Recandosi a casa di Christine (Deborah Kara Unger), una donna che ha conosciuto apparentemente per caso, capisce che la ragazza è una dipendente della società di giochi di ruolo che l’ha cacciato in quella situazione. Van Orton scopre che i suoi conti finanziari sono stati prosciugati e la donna droga il suo tè e lo trasporta privo di sensi in un cimitero in Messico.
 
Siamo solo a metà film e i colpi di scena non si contano già più. E proseguirà così fino alla fine. Come dovrebbe fare ogni thriller degno di questo nome.

mercoledì 5 novembre 2014

Un ballo, niente di più


Alcuni film diventano dei cult. A volte dipende dalla trama e dai temi trattati come fu per Il laureato, altre dagli attori come in L’attimo fuggente (uno dei ruoli più amati di Robin Williams) o ne Il buio oltre la siepe, film che valse l’Oscar a Gregory Peck. Può dipendere dal regista che in quel film in particolare riesce a esprimere al meglio la propria poetica (come fu per Tim Burton in Edward mani di forbice), o dall’essere l’opera manifesto di un genere, come sono Un dollaro d’onore e I magnifici Sette per il western. In altri casi è semplicemente una questione di strategia pubblicitaria, di abilità nel creare attesa e attenzione verso un dato film, come fece Spielberg per Jurassic Park.

Ci sono anche film che diventano il manifesto di una generazione o di una particolare età (quasi sempre l’adolescenza, magica e piena di ricordi, così evocativa da rappresentare), dovendo spesso il proprio successo alla musica e alle canzoni più che alla trama (come Grease e Il tempo delle mele).


È il caso di Dirty dancing, prodotto nel 1987 ma ambientato negli anni ’60. La pellicola racconta la storia della giovane Jennifer Grey che, in vacanza con la famiglia, si innamora del giovane e aitante maestro di ballo Patrick Swayze. E questo è tutto, perché molto altro da dire sulla storia non c’è, se non il fatto che il premuroso padre di lei (Jerry Orbach, conosciuto soprattutto per la sua lunghissima militanza in Law & Order – I due volti della giustizia) ovviamente detesta il giovane e non approva la loro relazione e che il bel maestro di ballo è vittima dei pregiudizi che all’epoca (e in parte ancora oggi) la gente nutriva nei confronti degli artisti, visti come irresponsabili, libertini e poco di buono (quando alcuni clienti dell’hotel vengono derubati, Orbach e gli altri benpensanti accusano subito Swayze, mentre in realtà i responsabili sono una coppia di rispettabili anziani).

Eppure il film è un cult e ad ogni passaggio televisivo ottiene sempre un discreto successo. Senza grandi attori (Patrick Swayze ai tempi era praticamente uno sconosciuto). Senza una gran trama. Senza artifici tecnici e stilistici. Ma a volte basta una canzone per dare al film un’aura di magia.
 

lunedì 3 novembre 2014

Quando un volto diventa un'icona


Halloween è passato da pochi giorni e, come ogni anno, tra i costumi più in voga ci sono quelli dei membri della famiglia Addams. Le ragazze optano per la sensuale Morticia, mentre i ragazzi più in forma scelgono Gomez (agli altri non resta che accontentarsi del costume da zio Fester). Gli Addams sono un ever green essendo ormai un’icona del nostro mondo.

Nati negli anni ’30 dalla penna di Charles Addams, divennero popolarissimi in tutto il mondo solo negli anni ’60, grazie all’omonimo telefilm.

La languida e spettrale Morticia è stata portata al cinema da Anjelica Huston ed è tornata in tv nel 1998 con La nuova famiglia Addams, impersonata da Ellie Harvie.

Il marito Gomez, elegante e signorile, perennemente in gessato e con sigaro in bocca, imperturbabile ed entusiasta, ha avuto il volto di Raul Julia e di Glenn Taranto.

Lo zio Fester, gioiosamente irresponsabile, sempre allegro e di buon umore, impegnato a fabbricare esplosivi o a giocare con il cannone, al cinema, interpretato da Christopher Lloyd, è stato il vero protagonista delle due pellicole sulla stramba famiglia. Lloyd, magnifico in altre parti come il celebre Doc di Ritorno al futuro, è un zio Fester troppo magro e smunto, privo di quella vivacità che il personaggio richiede. Ha fatto un lavoro già migliore Micheal Roberds nel telefilm del 1998.

Eppure i volti che associamo immediatamente a Morticia, Gomez e Fester non sono quelli nominati finora. Sono i visi di Carolyn Jones, John Astin e Jackie Coogan, nomi sconosciuti ai più, ma facce note a tutti. Sono gli interpreti del telefilm degli anni ’60 La famiglia Addams. È con loro che questi personaggi sono diventati iconici ed è ai loro volti che gli associamo, essendo divenuti grazie agli Addams icone loro stessi-


 

giovedì 30 ottobre 2014

Villa, dolce villa



Quando pensiamo a Los Angeles ci scorrono davanti agli occhi le immagini di Hollywood, le palme di Beverly Hills, le luminose spiagge di Malibù. Ma Los Angeles è soprattutto la città del cinema e dei divi. E di magnifiche ville, contornate da piscine olimpioniche e colonne greche.

Il tenente Colombo, con le sue indagini concentrate nella Los Angeles bene, tra personaggi famosi e miliardari, ci ha dato negli anni un ampio campionario di magnifiche ville. Solitamente in queste magioni – chiamarle case è davvero riduttivo – abita una sola persona, al massimo due. Certo, c’è la servitù, dal maggiordomo, alla cameriera, passando per l’autista e il giardiniere. Ma la servitù non vive in quelle dimore, ci lavora e basta, vivendo al massimo nella piccola dependance adiacente.

Ville enormi, di non so neanch’io quante stanze, riservate ad un solo essere umano. Colombo ce ne mostra il lato solare, ricco, affascinante. Chi non invidierebbe i ricchi padroni di casa? E dopotutto parte del gioco in Colombo è proprio quello di riservare la parte dell’assassino a personaggi odiosamente ricchi, belli e potenti. Lo spettatore ha una sensazione di rivalsa nel vedere il povero tenente (che in quanto a mezzi economici tanto gli assomiglia), circuire e infine incastrare i colpevoli. È una sorta di giustizia sociale quella fatta dalla serie. Se nella realtà i ricchi e i potenti riescono sempre a “svangarla”, quantomeno nella finizione televisiva non hanno scampo.

Ma c’è anche un altro lato, oscuro, spaventoso, inquietante. Colombo va quasi sempre di giorno a tormentare il colpevole di turno nella sua enorme abitazione. E vediamo una casa piena di luce, con mobili e oggetti molto costosi. Ma provate ad immaginare quelle stesse ville di sera tardi. Silenziose, buie (in America non si usano i lampadari. Prediligono le lampade che, saranno pure più chic, ma fanno molta meno luce), quasi disabitate. Uno scenario da film dell’orrore. Non posso fare a meno di immaginarmi come dev’essere angosciante e inquietante vivere in case così grandi e così vuote.

E non posso non pensare che forse le vite delle star che spesso invidiamo, sono molto meno affascinanti di quanto si pensi, esattamente come le loro ville.

martedì 28 ottobre 2014

È tutta questione di cuore



Mi trovo spessissimo in totale disaccordo con la critica. Ogni opinione è degna di rispetto, ma sono convinto che i critici – e molti spettatori che si atteggiano a critici – giudichino un’opera solo in base a questioni tecniche, ignorando gli elementi più importanti, ovvero i sentimenti che il film è in grado di suscitare e i valori e le idee che cerca di promuovere. Il caso più evidente è Instinct – Istinto primordiale.

La pellicola racconta la storia dell’antropologo Anthony Hopkins che, dopo essersi isolato per due anni in cui ha vissuto con i gorilla nella giungla africana, uccide due uomini. Rimpatriato negli Usa e ricoverato in un manicomio, si aprirà solo con lo psicologo Cuba Gooding Jr. che riuscirà a trasportare nel suo mondo e a cui racconterà cosa è successo realmente.

Leggendo le varie recensioni on line, si nota come in troppi non abbiano capito niente del film. Molti hanno interpretato la pellicola come una critica alla civiltà e un elogio della barbarie e dell’istinto primordiale (complice il pessimo titolo italiano), come l’espressione della voglia di tornare a una società più animalesca, vedendo la scelta di Hopkins di vivere con i gorilla come un diventare animale egli stesso, perdendo la propria natura umana (e questo già fa capire come abbiano seguito male il film, dato che lo stesso Hopkins racconta che non sono diventato un animale. È successo qualcosa di più incredibile. I gorilla hanno accettato un uomo nel loro gruppo).

In realtà il film è un manifesto della libertà, una critica all’esasperante tentativo umano di controllare ogni cosa. Nel corso del suo percorso evolutivo, l’uomo ad un certo punto non ha più accettato di far semplicemente parte di questo mondo e ha voluto diventarne padrone, esercitando un controllo che in realtà non è in suo potere.

Chiamatele baggianate new age, chiamatelo buonismo, ma se tutti comprendessimo di essere ospiti su questo pianeta, forse le cose andrebbero un po’ meglio. Ma questa probabilmente è una verità troppo difficile da accettare ed è per questo che la maggior parte si rifiuta direttamente di capirla.

sabato 25 ottobre 2014

Volgarità e comicità



Troppe persone confondono volgarità e comicità. Non sono un puritano e sono conscio che la parolaccia in certi momenti faccia effetto, abbia la sua funzione. Il problema è quando risulta gratuita.

Molti dei film comici americani dell’ultimo decennio sono riusciti ad arrivare a un livello d’insulsaggine e di volgarità impareggiabile. Parolacce a parte, non fanno che parlare di sesso, anche quando sarebbe superfluo, anche quando non c’entra niente con la trama. Sviliscono un aspetto dell’esistenza umana, la sessualità, intrinsecamente legato all’amore, al mistero, al fascino, al divertimento. Ma soprattutto – e questo è il peggio – non fanno nemmeno ridere.

Adam Sandler è forse l’attore che ha prestato di più il suo talento (talento?) a questo genere di film. Poco espressivo, con una faccia solo apparentemente da bravo ragazzo, Sandler sembra convinto che le risate siano proporzionate alle volgarità. Geni della comicità come Robin Williams, Peter Sellers e Leslie Nielsen sapevano benissimo che a causare la risata non era la battuta in sé (comunque importante), ma il tono con cui la si diceva, lo sguardo che l’accompagnava, le movenze con cui si costruivano i personaggi. Sandler se ne frega, ma il vero dramma è che è comunque ritenuto da molti ragazzi uno dei comici migliori.

I pochi film salvabili (da Mr. Deeds a 50 volte il primo bacio) scompaiono tra le terribili fetenzie interpretate dall’attore, da Io vi dichiaro marito e… marito a Zohan – Tutte le donne vengono al pettine, passando per Prima o poi me lo sposo.
 
Tra le pellicole peggiori, vince il primo premio Indovina perché ti odio in cui Sandler interpreta un quarantacinquenne divenuto padre a 15 anni in seguito ad una relazione con una sua professoressa. Arrivato a 30 anni, il figlio non sopporta il padre (e come dargli torto) che non è mai stato un educatore e che è un immaturo cronico. Tra una notte di sesso con la nonna della promessa sposa del figlio e altre oscenità che non ho il coraggio di raccontare, il film segna il livello più basso a cui dovrebbe essere concesso di scendere. Ma siccome non c’è fine al peggio, è facile immaginare che Sandler riuscirà a superare se stesso in futuro, propinandoci film ancora più vergognosi e scadenti.

giovedì 23 ottobre 2014

I misteri della distribuzione



Avrete notato che ci sono week-end in cui escono contemporaneamente fino a 10 film. Quando le pellicole in uscita sono poche, non sono comunque meno di 5. C’è un’evidente sovrapproduzione; in altre parole, si fanno più film di quanti la gente ne riesca a vedere. La conseguenza è che molti film che meritano passano inosservati e altri finiscono per saltare addirittura il passaggio al cinema, uscendo direttamente in dvd.

Capita spesso ai seguiti di altre pellicole, come Tesoro, ci siamo ristretti anche noi (girato sull’onda del successo anni ’90 Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi) o Generazioni, ennesimo film della lunga saga di Star Trek.

Uno dei film che negli anni ’90 subì questo trattamento, è Fuga dalla Casa Bianca. Protagonisti della storia sono due ex Presidenti Usa di opposto schieramento politico, interpretati da Jack Lemmon e James Garner. L’attuale Presidente (Dan Aykroyd) vuole far ricadere su Lemmon la colpa di uno scandalo che lo riguarda. Nel momento che Lemmon convince l’amico-nemico Garner della sua innocenza, i servizi segreti cercano di ucciderli prima che riescano a dimostrare che il vero colpevole è l’attuale Presidente. Nonostante alcuni momenti di tensione, il film è soprattutto un concentrato di battute e comicità che mette a nudo alcuni dei problemi della politica americana, riuscito soprattutto grazie alla straordinaria abilità degli interpreti.
 
Rimane la sensazione che sarebbe stato ancora migliore (ed è già un ottimo film) se al posto di Garner ci fosse stato Walter Matthau, l’abituale controparte di Lemmon, ma i due sono così convincenti che non si perde più di un secondo a pensare Come sarebbe stato se.

Purtroppo in pochissimi lo conoscono anche tra i fan di Lemmon, proprio perché in Italia è uscito direttamente in home video. E un film così divertente, non volgare e pungente, avrebbe meritato gli onori del cinema.

domenica 19 ottobre 2014

Modelli sbagliati



È dall’inizio del nuovo millennio che i telefilm sono diventati un fenomeno di culto. I telefilm del Duemila sono – nella maggior parte dei casi – molto differenti dalle serie dei decenni precedenti. Più realistici, crudi (basta pensare ai vari Csi), ammantati spesso di un aria filosofica (vedi Lost), tecnicamente innovativi (come 24). Ma ciò che è maggiormente cambiato sono i valori dei protagonisti, la visione della vita e del mondo dei vari personaggi.

I telefilm rispecchiano la società e in questi ultimi quindici anni sappiamo bene che la massa è diventata sempre più cinica, disillusa, egoista. L’umanità e la generosità stanno andando scomparendo e i telefilm non possono che registrare e mostrare questo fenomeno.

Dottor House ne è un ottimo esempio. Medico brillante e preparato, dal punto di vista umano è un insensibile stronzo. Il problema è che piace. Il problema è che, in caso di bisogno, in molti vorrebbero al proprio fianco Gregory House. Negli anni ’60 i telespettatori impazzivano per il dottor Kildare. Sicuramente bravo e scrupoloso, ma soprattutto umano, gentile, cosciente che chi si trovava davanti era un essere umano prima che un paziente.

Come insegnava il Patch Adams del compianto Robin Williams, lo scopo della medicina è migliorare la vita, non posticipare la morte. E dato che morire purtroppo è inevitabile, preferisco un medico che mi consoli e mi accompagni nel grande passo rispetto a uno che non riesce a comprendere che vivere è qualcosa di più di avere un cuore che batte, due polmoni che respirano e del sangue che scorre nelle vene.

I telefilm rispecchiano la società, ma allo stesso tempo la influenzano. Diventano dei modelli. E modelli di cinismo ed egoismo, non fanno che peggiorare il nostro mondo.
 

martedì 14 ottobre 2014

Il fascino del male


 
Mi considero una persona per bene, generosa, sensibile. In una parola, buona. Eppure a volte mi capita di essere più attratto nei film e nei telefilm dal cattivo che dall’eroe. I personaggi malvagi hanno spesso un notevole carisma. Basta pensare al diabolico petroliere J.R. in Dallas o al capo della Spectre Blofeld, l’acerrimo nemico di James Bond.

Vedi Il Re Leone e, nonostante il cattivo Scar faccia quanto di più spregevole si possa immaginare (uccide il fratello e fa credere al nipote di essere il colpevole della morte del padre), ti esalti galvanizzato quando cantando espone il suo piano. Segui Il delitto perfetto di Hitchcock e sotto sotto speri che il colpevole (il viscido e ironico Ray Milland) se la cavi, dopo tutta la fatica che ha fatto per progettare un delitto che si è rivelato tutt’altro che perfetto.

Ed è (almeno in parte) dovuto al carisma della cattiva, il successo de Il segreto, la telenovela che ha spopolato in Spagna ma che ha soprattutto conquistato il pubblico italiano.

Il personaggio che spicca è proprio quello della perfida donna Francisca (interpretata da María Bouzas): vendicativa, acida, crudele, le pensa tutte per dividere suo figlio dalla sua innamorata, dal farla accusare ingiustamente d’omicidio a fingersi paralizzata. E nella seconda serie farà di tutto per non perdere la figlioccia (l’unica a cui vuole bene e che incomprensibilmente la ricambia), arrivando a qualsiasi bassezza per evitare che se ne vada per la sua strada.

Eppure se date un’occhiata su internet, esistono pagine facebook di fan della perfida donna. Perché spesso il male al cinema e in tv, anche se destinato a perdere, è più divertente del bene.

sabato 27 settembre 2014

Tra genio e idiozia


Il confine tra genialità e stupidità è più sottile di quanto si pensi e accade che in uno stesso film si passi da momenti sagacemente divertenti a momenti di sconcertante banalità. Il dittatore ne è un perfetto esempio.

Sacha Baron Cohen interpreta un dittatore egoista ed egocentrico, che passa le sue notti con costose escort (chi vi ricorda?) e i suoi giorni controllando a che punto si trova il programma di armamenti nucleari e condannando a morte chiunque non gli vada a genio.

Convocato a New York dall’Onu dopo aver negato l’accesso agli ispettori Onu nel suo Paese, il dittatore viene rapito e scambiato con un suo sosia. A ordire il complotto è stato suo zio (Ben Kingsley), che vuole far diventare il Paese una democrazia per poter così vendere petrolio alle multinazionali degli stati cosidetti “civilizzati”. Il dittatore riesce a scappare e con la complicità di un suo compatriota sventa il piano dello zio, “salvando” il suo Paese dalla democrazia.

Il tocco di genio sta nell’invertire quello che tradizionalmente consideriamo bene e male, tanto che il ritorno alla dittatura viene considerato il lieto fine. Nel geniale monologo finale, Baron Cohen elenca i comportamenti da dittatura che ogni governo democraticamente eletto mette in atto nascondendosi dietro il fatto di essere una democrazia, dal taglio delle tasse per i più ricchi a danno dei più poveri, alle menzogne che i governi si inventano per giustificare la guerra di turno (chissà quanto avranno fischiato le orecchie a Bush junior).

In una commedia tanto profonda, stonano pesantemente le abbondanti gag di grana grossa, prevalentemente a sfondo sessuale. Un alternarsi di alti e bassi che finisce inevitabilmente per scontentare tutti. Lo spettatore che gradisce la commedia intelligente si trova a disagio di fronte a certe battute troppo volgari, mentre quello che apprezza la comicità di pancia non capisce ed è quasi infastidito dalla sagace satira di Baron Cohen. Ma del resto è così per tutti i film di quest’attore, da Brüno a Borat. E forse è anche lo specchio dei tempi, che permette di esprimere la propria genialità solo se camuffata dietro un’abbondante volgarità.
 
 
 

venerdì 29 agosto 2014

Se si potesse fare a meno delle star...


 
Hollywood è famosa anche per i capricci degli attori. Da Sharone Stone che pretende che i suoi domestici spazzolino più volte al giorno la sua auto armati solo di pennello, a Johnny Depp che vuole che il suo camerino sia arredato con drappi orientali e candele profumate. Tra i più folli si annoverano Jim Carrey che pretendeva di portare sul set – a spese della Casa cinematografica, ovviamente – un cuoco personale per il suo iguana, e Val Kilmer che aveva fatto inserire nel suo contratto il divieto per chiunque lavorasse con lui di guardarlo (c’è da sperare che qualche tuttofare gli abbia “incidentalmente” rovesciato un caffè bollente sui pantaloni. Dopotutto sarebbe stato giustificabile, dato che poteva avvicinarsi al vanesio Val solo non alzando lo sguardo da terra).

Non stupisce che gli attori con meno pretese assurde siano anche i più capaci, da Tom Hanks a Jack Nicholson.

L’argomento deve aver particolarmente colpito il regista fantascientifico Andrew Niccol, dato che ha deciso di dedicare un film al sogno di molti registi: un film senza attori. In S1mone, un regista (interpretato dal carismatico Al Pacino), stufo di sottostare ai folli capricci degli attori, sostituisce la diva protagonista della pellicola che sta girando con un’immagine olografica costruita al computer. Il pubblico è entusiasta della nuova stella e lui si guarda bene dal distruggere il sogno, dal rivelare che la bella attrice non esiste.

Come sempre accade in questo genere di storie, la cosa prende dimensioni inaspettate. Il protagonista deve inventarsi ogni sorta di trucco per far sembrare reale una persona inesistente. Ed ecco che noleggia una stanza d’albergo in cui lascia lingerie e tracce di profumo femminile per convincere i giornalisti che la sua attrice ha passato lì la notte, o che mette al volante un manichino vestito da donna e coperto da grossi occhiali da sole per far credere alla sua ex moglie di aver davvero intravisto questa donna del mistero.

Divertente e con una svolta finale inaspettata, il film è una critica al divismo imperante, a tutti quelli attori che si comportano da bambini viziati anziché da star. Perché essere un divo è soprattutto una responsabilità.

sabato 16 agosto 2014

Grazie



Ci sono momenti in cui l’Umanità si stringe, unita da un dolore che prende e accomuna persone diverse per sesso, religione, colore della pelle e classe sociale. È stato così per gli attentati alle Torri Gemelle, per la morte di Papa Giovanni Paolo II, per certi versi anche per la dipartita di Nelson Mandela. Pochi avrebbero mai immaginato che una cosa del genere potesse accadere alla morte di un attore.

L’11 agosto Robin Williams ci ha lasciato. E come ha scritto su Twitter uno dei suoi figli, il mondo è più grigio senza di lui. Da quel giorno sento una solitudine che non dà segno di voler passare.

In molti hanno cercato di capire cosa l’ha spinto al suicidio, in troppi si sono sentiti in diritto di giudicarlo. Sicuramente tutti sono rimasti disorientati. Perché se c’era un uomo che non avresti mai creduto potesse suicidarsi, questo era proprio Robin Williams. Penso sia umano cercare una ragione, tentare di dare un senso a quella che si sembra una contraddizione. Non so perché Robin Williams si è suicidato e non contribuirò a questo rito di psicoanalisi collettiva. So solo che Williams non era semplicemente un attore: era un artista. E un artista non si può comprendere e inquadrare nei normali parametri che si riservano alla massa. Essere un artista è un dono e una maledizione, perché mentre ti mette in condizione di vedere il mondo da una prospettiva unica e privilegiata, non ti permette di condividere con nessuno la tua visione, perché nessuno è in grado di capirla.

Robin Williams fa parte del mondo interiore di chi, come me, è cresciuto negli anni ’90. In molti non comprendono il dolore per la sua morte, in tanti etichettano i suoi film come zuccherosi e buonisti, adatti solo ad un pubblico sotto i 17 anni. Sono quelli che a 17 anni sono morti dentro. Camminano, lavorano, parlano, ma la loro anima è morta. Sono coloro che hanno confuso il maturare con l’uccidere i sogni, il diventar grandi con il diventar cinici.
 
Piangiamo Robin Williams come, sono convinto, non piangeremo attori illustri come Al Pacino, Robert De Niro, Dustin Hoffman, perché ha insegnato alla mia generazione quale fosse la cosa più importante: il sentimento. I sentimenti, le emozioni, l’affettività come la parte più autentica dell’essere umano. Chi non mette al centro dell’esistenza il sentimento, è naturale che critichi Patch Adams, L’attimo fuggente, L’uomo bicentenario come semplicisti e buonisti. Non è in grado di capire che se dessimo ai sentimenti l’importanza che hanno, senza tante costruzioni e gabbie mentali, il mondo sarebbe più giusto, più bello, migliore. Molti tra coloro che invece lo capiscono, lo devono in buona parte a Robin Williams che in questo momento, ne sono certo, sta facendo ridere a crepapelle i nostri cari volati in cielo.

Ciao Robin, angelo tornato a casa.

mercoledì 2 luglio 2014

Tre scene, un film


Alcune scene sono entrate nell’immaginario collettivo. Pur non avendo mai visto il film da cui sono tratte, tutti le conoscono. Lo spogliarello di Kim Basinger in 9 settimane e mezzo, l’attacco aereo al suono della Cavalcata delle Valchirie in Apocalypse Now, la camminata ballata al ritmo di Stayin’ Alive di John Travolta all’inizio de La febbre del sabato sera.

Una scena famosa non fa un capolavoro, e un bel film è tale indipendentemente dal numero di scene entrato nella storia della cinematografia. Indiscutibilmente però le scene che catalizzano l’attenzione, creano, dalla seconda visione del film in poi, un senso d’attesa.

Emblematico è il caso di Scent of a woman – Profumo di donna. Il protagonista è Al Pacino nei panni di un ex colonnello divenuto cieco dopo un incidente. La sua famiglia assume un giovane studente (Chris O’Donnell) perché si occupi di lui durante il week-end del ringraziamento. Il colonnello lo trascina a New York dove ha intenzione, dopo essere andato a trovare suo fratello e aver fatto l’amore per un’ultima volta, di suicidarsi. Mentre il colonnello gli insegnerà a vivere, il ragazzo racconterà al colonnello i suoi problemi: ha assistito ad uno scherzo molto pesante nei confronti del preside del suo college e se non farà la spia, il preside lo caccerà.

Ogni frase pronunciata da Al Pacino è degna di nota, ma sono tre i momenti del film che finisci ogni volta per aspettare con trepidazione.

Innanzitutto la scena del tango, con il colonnello cieco che insegna ad una giovane donna il ballo più sensuale del mondo (Non c’è possibilità di errore nel tango, non è come la vita: è più semplice. Commetti un sbaglio ma non è mai irreparabile, seguiti a ballare). Poi la corsa in Ferrari, con Al Pacino al volante che aspetta che Chris O’Donnell gli dica il momento esatto in cui curvare. Infine il monologo di Al Pacino al college, in difesa del suo giovane amico che non vuole tradire dei compagni per comprarsi un futuro.
 
Tre scene che trasudano voglia di vivere, forza ed energia vitale. Ancora più trascinanti perché hanno per protagonista un cieco. Tre scene che riassumono il messaggio del film: andare avanti comunque, perché in questa vita c’è sempre un qualcosa per cui vale la pena di vivere.

sabato 28 giugno 2014

È la Tv la nuova scena del delitto


Il cinema ha contribuito a diffondere e a modificare il genere giallo (nato dalla penna di Arthur Conan Doyle) vertendo più sul thriller. Il Maestro assoluto della suspense era Alfred Hitchcock, e suoi sono alcuni dei gialli più intriganti mai girati, da Marine a La donna che visse due volte.

Da una trentina d’anni, il genere giallo è diventato una delle colonne portanti della televisione. La maggior parte dei telefilm ruota attorno ad omicidi ed indagini, dal classico Colombo al teutonico ispettore Derrick, dallo spensierato Un detective in corsia al crudo e realistico Csi.

Certo il cinema può vantare una maggiore ricchezza di mezzi, ma le storie narrate nei vari Ellery Queen, Quincy, Matlock, hanno addirittura superato la qualità di quelle cinematografiche. Perché con la pratica il risultato migliora e la tv si occupa di gialli da talmente tanto tempo da esserne diventata maestra.

Prendiamo come esempio il film Suspect – Presunto colpevole. Un senzatetto sordomuto (Liam Neeson) viene accusato di omicidio. Il procuratore sostiene che abbia ucciso una donna solo per rubarle i nove dollari che conteneva la sua borsetta. Per l’avvocato d’ufficio (Cher) non sarà facile dimostrare l’innocenza dell’imputato e a complicare il suo lavoro ci si metterà anche uno dei giurati (Dennis Quaid) che, convinto della non colpevolezza del senzatetto, interferirà con le sue indagini, rischiando la pelle di entrambi, oltre che di invalidare il processo.

Il colpevole è insospettabile (ed io, ovviamente, non vi dirò di chi si tratta), ma non per chi ha visto ore e ore di Perry Mason e de La signora in giallo. Non sai perché ma sospetti di lui, forse proprio perché è l’unico che non dovresti prendere in considerazione per la soluzione del caso. Perché l’overdose di gialli che la televisione ci ha imposto ci ha lasciato alcuni insegnamenti fondamentali: se una sola persona ha un alibi inattaccabile, quella è l’assassino; se muore un gemello, è stato ucciso dal fratello che ha preso la sua identità; se il cadavere di un defunto viene identificato solo per qualche oggetto esterno come un anello, colui che la polizia ritiene sia morto è in realtà l’assassino che ha ucciso un poveraccio per farsi passare per defunto. E poi si dice che la televisione non insegna niente.

sabato 21 giugno 2014

La voce della supponenza


 
Elogiamo sempre – e con ragione – l’interpretazione di grandi attori stranieri come Robert De Niro, Hugh Grant o Robin Williams, ma spesso dimentichiamo che metà del lavoro viene fatto – o meglio rifatto – nel doppiaggio. I nostri doppiatori sono considerati tra i migliori al mondo e alcuni attori hanno riconosciuto che le loro voci italiane hanno addirittura migliorato la loro performance, su tutti Woody Allen, fan del suo defunto doppiatore Oreste Lionello.

Alcuni doppiatori hanno raggiunto una discreta fama, come Tonino Accolla – anche lui scomparso – voce di Homer Simpson e autore della versione italiana della debordante risata di Eddie Murphy.

La maggior parte però è una serie di anonimi nomi. Come Renato Mori, Roberto Pedicini, Giuseppe Rinaldi. Rispettivamente le voci di Morgan Freeman, Jim Carry e Marlon Brando.

L’abilità del doppiatore consiste nel saper adattare la voce ai diversi ruoli e ai diversi attori, eppure a volte c’è qualcosa in comune tra i personaggi a cui finisce col dar una seconda vita. Un perfetto esempio è il doppiaggio fatto da Oliviero Dinelli di Rowan Atkinson – divenuto celebre per la macchietta Mister Bean – in Johnny English. Il film è una parodia dei vari 007 ma il punto di forza della pellicola è che il protagonista interpretato da Atkinson – promosso dal lavoro d’ufficio ad agente segreto dopo che in un attentato sono stati uccisi tutti gli agenti segreti – è un idiota che si crede un genio. E dallo scarto tra la realtà e l’immagine che il protagonista ha di sé che nasce il divertimento, un po’ come accadeva con l’ispettore Clouseau di Peter Sellers ne La pantera rosa.

Dinelli rende al massimo l’arroganza e la supponenza dell’agente Johnny English, riportando alla memoria uno dei primi personaggi che aveva doppiato. Sto parlando di Darkwing Duck, protagonista dell’omonimo cartone animato Disney. Darkwing è un supereroe fai-da-te: tronfio e pieno di sé, si crede un invincibile combattente del crimine mentre fa più disastri di Leslie Nielsen nei panni dell’agente Drebin in Una pallottola spuntata. Lo stesso spirito che più di dieci anni dopo Dinelli infonde in Johnny English. Un papero e un essere umano, un presunto supereroe e una presunta spia, uniti dalla stessa smania di protagonismo. E dalla stessa voce.

martedì 13 maggio 2014

Non lo faccio per me



Ci sono momenti in cui mi sento in dovere di contestare atteggiamenti e pensieri diffusi che ritengo completamente sbagliati. Sono quei momenti in cui divento moralista, bacchettone, perfino un po’ antipatico. Non piace a nessuno sentirsi fare la predica, ma tutti dovremmo fare del nostro meglio perché questo mondo diventi migliore (che ci volete fare, sono un sentimentale), e mettere in guardia il prossimo dalle tendenze peggiori che sta prendendo la nostra società fa parte del rendere il mondo migliore.

L’altro giorno sentivo alla radio la pubblicità di un istituto di ricerca che si occupa di trovare una cura per il cancro che invitava a destinare a loro il 5 per mille della dichiarazione dei redditi. Quello che mi ha colpito è la strategia a cui sono ricorsi per incentivare l’ascoltatore a scegliere la loro associazione per la donazione. La speaker diceva di aver scelto quel istituto non per far del bene, non per generosità, ma per se stessa. Lo faccio per me, perché se un domani mi ammalerò di cancro ci possa essere una cura.

Logicamente ognuno è libero di donare il proprio 5 per mille a chi crede, e non esistono in questo genere di cose scelte giuste e sbagliate. Ma non dobbiamo dimenticare la natura dell’azione che stiamo facendo. Si tratta di un dono, dare qualcosa a qualcun altro gratuitamente. Se lo facciamo  per un nostro tornaconto, con un doppio scopo o anche solo sperando che se in futuro avremo bisogno potremo anche noi contare su quel gesto che abbiamo fatto, non è più un dono.

Viviamo in un mondo egoista, schiavi del dio denaro. I sogni, le speranza, ma anche gli stessi bisogni basilari degli esseri umani non contano niente di fronte al mercato e all’economia. Un mondo come questo ha più che mai bisogno di riscoprire il valore del dono, della gratuità di un gesto. Donate il vostro 5 per mille alla ricerca, a una Onlus che fa del bene, donatelo perfino al vostro Comune se preferite. L’importante è che lo doniate, pensando al prossimo e senza cercare di riceverne qualcosa in cambio.

martedì 29 aprile 2014

La Cina ci teme



Gli esperti d’economia assicurano che in un futuro non molto lontano la Cina sarà il centro economico del pianeta. È indubbio che competitivamente il paese degli involtini primavera ha vita facile: produce di tutto a basso costo, conquista ogni mercato riuscendo ad essere competitivo vendendo al prezzo minore, paga i lavoratori un pugno di riso. Logica vuole che dovremmo temerli. E non perché sposteranno l’asse economico ad Oriente, ma perché il paese più ricco detta le regole e – per quanto gli Stati Uniti abbiamo mille difetti – sono certo che le nuove regole non ci piaceranno, incoraggiando le disuguaglianze, le ingiustizie e lo sfruttamento.

Eppure sembrano loro ad avere più paura di noi. È notizia di questi giorni che le autorità cinesi hanno ordinato la rimozione dal web di quattro serie tv americane: The Good Wife, Ncis, The Practice e The Big Bang Theory. Il motivo di tale decisione non è stato reso noto, ma molti sospettano che ci sia dietro la volontà di riprendere il monopolio della televisione. In Cina non esiste altra emittente oltre alla rete nazionale, ma i cittadini possono usufruire di internet per vedere in streaming telefilm e film che non vengono trasmessi dal loro unico canale. E dato che sempre meno giovani cinesi guardano la tv, attratti dai telefilm che trovano in rete, eliminare queste alternative è il modo migliore per ricondurli nell’ovile della vecchia, cara, tv di Stato, mezzo utilissimo per controllare e plasmare l’opinione pubblica.

I telefilm statunitensi rappresentano il modello di libertà, ricchezza e giustizia che gli Usa vorrebbero essere (e non sempre sono). Un modello a cui ogni essere umano vorrebbe tendere, uno stile di vita che ha un fascino innegabile. Ceausescu negli anni ’80 incoraggiò la messa in onda di Dallas, credendo che sarebbe servito a far capire ai rumeni quanto gli americani fossero corrotti, avidi e senza scrupoli. Il risultato fu che i rumeni si innamorarono a tal punto del modello americano da far naufragare il regime del dittatore.

The Big Bang Theory non sarà paragonabile a Dallas, ma forse la paura del governo cinese non è così infondata.

lunedì 28 aprile 2014

Chi è che non regge la verità?



Ci sono categorie a cui è richiesta più obbedienza che intelligenza. Oltre ai sacerdoti – che fanno voto d’obbedienza – sono soprattutto i militari coloro che devono obbedire senza batter ciglio, senza mettere in discussione la ragionevolezza e il senso del ordine. Disciplina, è questa la prima qualità (qualità?) del soldato.

Tra i più che trattano meglio l’argomento c’è certamente Codice d’onore.

La storia parte dall’omicidio di un marines nella base di Guantanamo (non ancora resa celebre delle torture e dalle violenze post 11 settembre). I colpevoli sono due commilitoni che stavano punendo piuttosto rudemente il ragazzo. La loro difesa è quella di aver eseguito un ordine dato da un superiore, Kiefer Sutherland, ordine che lui ovviamente nega di aver dato. L’avvocato della difesa Tom Cruise, convinto dalla collega Demi Moore, rifiuta di patteggiare, deciso a dimostrare l’innocenza dei due soldati. Non impiegherà molto a capire che lo stesso Sutherland aveva dato l’ordine obbedendo alla volontà del suo superiore, il colonnello Jack Nicholson.

Oltre il dramma giudiziario, oltre la tensione, oltre alla consueta e sempre magnifica prova di Nicholson che pur apparendo in solo tre scene riesce a “rubare” il film al protagonista Cruise, la pellicola punta il dito sui limiti che dovrebbe avere la disciplina. Chi non resiste, chi non ce la fa, chi non è in grado di essere un ottimo marines, deve essere punito. Nella sua follia, Nicholson crede di far del bene, perché solo modellando uomini come quelli che vuole potrà salvare la Nazione. E in quest’ottica, la vita di un povero ragazzo è un irrisorio prezzo da pagare.

Tom Cruise comprende che gli esaltati come lui sono fieri delle loro azioni, convinti di portare in sé la verità, e lo spinge ad ammettere di aver dato l’ordine di punizione in aula. Sempre convinto d’aver agito bene, a chi non approva i suoi metodi Nicholson risponde che sono necessari e che se non lo capisci Non sei in grado di reggere la verità. Ma quello che fa progredire il mondo sono l’intelligenza, il coraggio, la voglia di osare. L’esatto contrario della disciplina insomma. E forse è questa la verità che molti dei comandanti dei vari eserciti che Nicholson rappresenta così bene, non sono in grado di reggere.
 
 

giovedì 17 aprile 2014

E a Pasqua?



Tra pochi giorni sarà Pasqua e pensando a un post per l’occasione mi sono reso conto che non esistono o quasi film dedicati a questa festa. L’unica pellicola che mi è venuta in mente è Hop, un live-action con protagonista il figlio del Coniglio Pasquale (la versione pasquale di Babbo Natale, molto meno celebre del collega in rosso) che, ambendo a diventare un famoso batterista e non volendo portare avanti l’azienda di famiglia, scappa dall’isola di Pasqua alla volta di Los Angeles, la città dalle mille occasioni. Qui conosce Fred (James Marsden), ottimista sognatore (disoccupato, come tutti gli ottimisti sognatori). Le loro storie si intrecciano e, aiutandosi a vicenda, entrambi realizzano i propri sogni: il coniglio suona per David Hasselhoff (l’ex star di Baywatch e Supercar, oggi impegnato in comparsate strapagate in cui interpreta se stesso) e Fred diventa assistente del Coniglio Pasquale. Seppur carino, il film non è certo indimenticabile e le uniche cose che restano nella memoria alla fine della visione sono (oltre la pessima figura di Hasselhoff) l’agguerrito pulcino ribelle che vuole spodestare il Coniglio Pasquale per diventare il nuovo simbolo della Pasqua (se fosse stato un film natalizio, sarebbe stato un elfo che vuole destituire Santa Claus) e la presenza di Kaley Cuoco (Penny di The Big Bang Theory) nel cast, nel ruolo della sorella di Fred.

Se escludiamo film religiosi come La passione di Cristo o Il re dei re, praticamente non esistono altri film sulla Pasqua.

Ci sono più di un centinaio di film sul Natale, qualcuno che parla di San Valentino come Appuntamento con l’amore, esistono perfino film dedicati a Capodanno (Capodanno a New York) e al Ringraziamento (il cartoon Free Birds – Tacchini in fuga). Per Pasqua poco e niente, tanto che alcuni anni è stato trasmesso come “film festivo” Il piccolo Lord che nella parte finale è ambientato a Natale. Oltre al danno, anche la beffa.

domenica 13 aprile 2014

Il volto del romanticismo


La commedia sentimentale evolve, come tutti i generi. Film che funzionavano negli anni ’70, già il decennio successivo non vanno. Cambiano le mode, ma soprattutto cambia la sensibilità del pubblico e di conseguenza il modo di raccontare una storia.

La commedia romantica ha vissuto negli anni ’60 e nei ’90 due periodi di massimo splendore. I film prodotti in questi decenni sono molto diversi tra di loro. Siamo passati dalla classe di Cary Grant all’apparenza trasandata di Hugh Grant (che in comune hanno solo il cognome), dall’innocente casalinga Doris Day alla sexy-donna impegnata Katherine Heigl, dal bacio di Casablanca al finire subito a letto di Prima ti sposo poi ti rovino.

La regina incontrastata del secondo decennio è senza dubbio Julia Roberts. Pur avendo partecipato anche a film di tutt’altro genere, dal fantastico Hook – Capitan Uncino al thriller Il rapporto Pellican, sono i film d’amore ad averla consegnata all’Olimpo di Hollywood, tanto da essere definita la “fidanzata d’America”.

Attrice strapagata e con il secondo sorriso più ampio della storia del cinema (il primo è quello del Joker di Jack Nicholson), ha avuto la fortuna di recitare con mostri sacri come Woody Allen, Susan Sarandon e Richard Gere. Tra i suoi maggiori successi, oltre al sempreverde Pretty woman, Qualcosa di cui sparlare, Il matrimonio del mio migliore amico, Se scappi ti sposo e molti altri.

Dal 2000 in poi, complice un periodo sabbatico di tre anni che ha deciso di concedersi dopo la nascita dei suoi gemellini, si sono diradati i ruoli e i successi al botteghino. Abbandonata la commedia, la sua carriera è virata verso il drammatico, con La guerra privata di Charlie Wilson, Un segreto tra di noi e il thriller spionistico Duplicity. Le incursioni nel cinema romantico si sono diradate: le uniche negli ultimi anni sono il film corale Appuntamento con l’amore e L’amore all’improvviso con Tom Hanks. Del resto l’età avanza per tutti, anche per la fidanzata d’America.

lunedì 7 aprile 2014

Che fine ha fatto l'italiano?


 
Si sente spesso parlare della necessità di difendere la nostra lingua dalla valanga di parole straniere che sempre più fanno capolino nel nostro gergo. Parole inglesi per lo più.

Molte ruotano attorno alle discipline economiche, e dato che l’inglese è la lingua degli affari, diventa naturale parlare di spread (misteriosa entità che nessuno ha ancora ben compreso cosa sia ma di cui tutti siamo stufi di sentir parlare), di brand, di business. Ci sono parole che è logico importare perché sono il nome proprio di qualcosa che magari nel nostro Paese prima non esisteva. Negli Usa la pasta la chiamano pasta, ed è logico che noi non traduciamo la parola hamburger, il vocabolo tennis, il sostantivo omelette. Ma che bisogno c’è di chiamare il montepremi del superenalotto jackpot? Perché usare magazine anziché rivista? Dove nasce la necessità di sostituire la locuzione alla moda con trendy?

Questa tendenza non risparmia nemmeno il mondo del cinema e sono sempre di più i film che si presentano al pubblico italiano con il titolo originale anziché tradotto. Certo, non mancano i casi in cui il titolo italiano nulla ha a che vedere con quello originale, come Airplane (semplicemente aereo) che diventa L’aereo più pazzo del mondo (ma ammettiamolo, il “nostro” titolo è molto più adatto) o Home alone (letteralmente Solo a casa) che altro non è che Mamma ho perso l’aereo. Concordo anche sul fatto che certi titoli non si possono tradurre, come Closer con Julia Roberts (Più vicino nun se pò sentì) o Twilight (se lo intitolavano Crepuscolo, nessuno sarebbe andato a vederlo).

Il fatto è che oggi si evita di tradurre anche titoli che in italiano suonerebbero molto bene ed avrebbero la loro dignità. Qualche anno fa quantomeno si accompagnava al titolo in inglese il sottotitolo che ne chiariva il significato, come DirtyDancing – Balli proibiti o Beverly Hills Cop – Un piedipiatti a Beverly Hills. Oggi si presume (e si pretende) che tutti sappiano l’inglese, ed ecco che ci ritroviamo The face of love, The butler e The last station. Possibile che intitolandoli Il volto dell’amore, Il maggiordomo e L’ultima stazione non avrebbero avuto comunque successo?

sabato 5 aprile 2014

Il glaciale gentiluomo



Ci sono attori che incarnano a meraviglia il ruolo del maledetto, il personaggio pericoloso e inquietante, quello di cui diffidare, nonostante cerchi di apparire come una persona normale.

Uno degli attori più bravi in questo tipo di ruoli è Christopher Walken. Alto, biondo, occhi azzurri. Sulla carta l’eroe perfetto. C’è qualcosa però nel suo viso che fa diventare quei tratti pericolosi. Se Jack Nicholson è maestro nel uso del sopracciglio e nello sfoggiare il ghigno più minaccioso di Hollywood, Walken fonda la sua pericolosità sulla dualità che contraddistingue i suoi personaggi. E del resto non c’è niente di più spaventoso di qualcuno che all’apparenza si manifesta come innocente, per bene, rassicurante, ma che nasconde nel suo sguardo una calma, una freddezza, che è solo dei malvagi. Walken è ambiguo, sinistro, fintamente rassicurante. Si presenta sempre come un uomo a modo, uno di cui ti puoi fidare - come in Cortesie per gli ospiti – per poi svelare la sua vera, infida e terribile, natura.

Tra i tanti attori feticcio di Tim Burton, da vita con lui a Max Shreck, l’industriale corruttore di Batman – Il ritorno, l’unico personaggio totalmente negativo della pellicola, senza alcuna giustificazione per quello che fa (come invece è per Batman, Catwoman e il Pinguino).

Interprete anche dell’antagonista di James Bond in 007 Bersaglio mobile, Walken si è prestato spesso alla commedia, come in Sbucato dal passato e Due single a nozze, donando comunque un’aurea inquietante ai personaggi interpretati. Peculiare in questo il suo ruolo in Cambia la tua vita con un click. Il film parte come la classica commediola per famiglie, con Adam Sandler che viene in possesso di un telecomando che gli permette di accelerare e saltare parti della sua vita, esattamente uguale a quello dei nostri lettori dvd. A darglielo è Walken, commesso di un grande magazzino. Dopo non molto tempo Sandler si rende conto che ha gettato via quasi tutta la vita, saltando le parti che non riteneva interessanti ma che sono dopotutto il succo dell’esistenza, fatta di quotidianità piuttosto che di giorni speciali. Ed è a questo punto che Walken si palesa per quello che è, ovvero La Morte. Perché con Christopher Walken non c’è mai da stare tranquilli.