giovedì 30 ottobre 2014

Villa, dolce villa



Quando pensiamo a Los Angeles ci scorrono davanti agli occhi le immagini di Hollywood, le palme di Beverly Hills, le luminose spiagge di Malibù. Ma Los Angeles è soprattutto la città del cinema e dei divi. E di magnifiche ville, contornate da piscine olimpioniche e colonne greche.

Il tenente Colombo, con le sue indagini concentrate nella Los Angeles bene, tra personaggi famosi e miliardari, ci ha dato negli anni un ampio campionario di magnifiche ville. Solitamente in queste magioni – chiamarle case è davvero riduttivo – abita una sola persona, al massimo due. Certo, c’è la servitù, dal maggiordomo, alla cameriera, passando per l’autista e il giardiniere. Ma la servitù non vive in quelle dimore, ci lavora e basta, vivendo al massimo nella piccola dependance adiacente.

Ville enormi, di non so neanch’io quante stanze, riservate ad un solo essere umano. Colombo ce ne mostra il lato solare, ricco, affascinante. Chi non invidierebbe i ricchi padroni di casa? E dopotutto parte del gioco in Colombo è proprio quello di riservare la parte dell’assassino a personaggi odiosamente ricchi, belli e potenti. Lo spettatore ha una sensazione di rivalsa nel vedere il povero tenente (che in quanto a mezzi economici tanto gli assomiglia), circuire e infine incastrare i colpevoli. È una sorta di giustizia sociale quella fatta dalla serie. Se nella realtà i ricchi e i potenti riescono sempre a “svangarla”, quantomeno nella finizione televisiva non hanno scampo.

Ma c’è anche un altro lato, oscuro, spaventoso, inquietante. Colombo va quasi sempre di giorno a tormentare il colpevole di turno nella sua enorme abitazione. E vediamo una casa piena di luce, con mobili e oggetti molto costosi. Ma provate ad immaginare quelle stesse ville di sera tardi. Silenziose, buie (in America non si usano i lampadari. Prediligono le lampade che, saranno pure più chic, ma fanno molta meno luce), quasi disabitate. Uno scenario da film dell’orrore. Non posso fare a meno di immaginarmi come dev’essere angosciante e inquietante vivere in case così grandi e così vuote.

E non posso non pensare che forse le vite delle star che spesso invidiamo, sono molto meno affascinanti di quanto si pensi, esattamente come le loro ville.

martedì 28 ottobre 2014

È tutta questione di cuore



Mi trovo spessissimo in totale disaccordo con la critica. Ogni opinione è degna di rispetto, ma sono convinto che i critici – e molti spettatori che si atteggiano a critici – giudichino un’opera solo in base a questioni tecniche, ignorando gli elementi più importanti, ovvero i sentimenti che il film è in grado di suscitare e i valori e le idee che cerca di promuovere. Il caso più evidente è Instinct – Istinto primordiale.

La pellicola racconta la storia dell’antropologo Anthony Hopkins che, dopo essersi isolato per due anni in cui ha vissuto con i gorilla nella giungla africana, uccide due uomini. Rimpatriato negli Usa e ricoverato in un manicomio, si aprirà solo con lo psicologo Cuba Gooding Jr. che riuscirà a trasportare nel suo mondo e a cui racconterà cosa è successo realmente.

Leggendo le varie recensioni on line, si nota come in troppi non abbiano capito niente del film. Molti hanno interpretato la pellicola come una critica alla civiltà e un elogio della barbarie e dell’istinto primordiale (complice il pessimo titolo italiano), come l’espressione della voglia di tornare a una società più animalesca, vedendo la scelta di Hopkins di vivere con i gorilla come un diventare animale egli stesso, perdendo la propria natura umana (e questo già fa capire come abbiano seguito male il film, dato che lo stesso Hopkins racconta che non sono diventato un animale. È successo qualcosa di più incredibile. I gorilla hanno accettato un uomo nel loro gruppo).

In realtà il film è un manifesto della libertà, una critica all’esasperante tentativo umano di controllare ogni cosa. Nel corso del suo percorso evolutivo, l’uomo ad un certo punto non ha più accettato di far semplicemente parte di questo mondo e ha voluto diventarne padrone, esercitando un controllo che in realtà non è in suo potere.

Chiamatele baggianate new age, chiamatelo buonismo, ma se tutti comprendessimo di essere ospiti su questo pianeta, forse le cose andrebbero un po’ meglio. Ma questa probabilmente è una verità troppo difficile da accettare ed è per questo che la maggior parte si rifiuta direttamente di capirla.

sabato 25 ottobre 2014

Volgarità e comicità



Troppe persone confondono volgarità e comicità. Non sono un puritano e sono conscio che la parolaccia in certi momenti faccia effetto, abbia la sua funzione. Il problema è quando risulta gratuita.

Molti dei film comici americani dell’ultimo decennio sono riusciti ad arrivare a un livello d’insulsaggine e di volgarità impareggiabile. Parolacce a parte, non fanno che parlare di sesso, anche quando sarebbe superfluo, anche quando non c’entra niente con la trama. Sviliscono un aspetto dell’esistenza umana, la sessualità, intrinsecamente legato all’amore, al mistero, al fascino, al divertimento. Ma soprattutto – e questo è il peggio – non fanno nemmeno ridere.

Adam Sandler è forse l’attore che ha prestato di più il suo talento (talento?) a questo genere di film. Poco espressivo, con una faccia solo apparentemente da bravo ragazzo, Sandler sembra convinto che le risate siano proporzionate alle volgarità. Geni della comicità come Robin Williams, Peter Sellers e Leslie Nielsen sapevano benissimo che a causare la risata non era la battuta in sé (comunque importante), ma il tono con cui la si diceva, lo sguardo che l’accompagnava, le movenze con cui si costruivano i personaggi. Sandler se ne frega, ma il vero dramma è che è comunque ritenuto da molti ragazzi uno dei comici migliori.

I pochi film salvabili (da Mr. Deeds a 50 volte il primo bacio) scompaiono tra le terribili fetenzie interpretate dall’attore, da Io vi dichiaro marito e… marito a Zohan – Tutte le donne vengono al pettine, passando per Prima o poi me lo sposo.
 
Tra le pellicole peggiori, vince il primo premio Indovina perché ti odio in cui Sandler interpreta un quarantacinquenne divenuto padre a 15 anni in seguito ad una relazione con una sua professoressa. Arrivato a 30 anni, il figlio non sopporta il padre (e come dargli torto) che non è mai stato un educatore e che è un immaturo cronico. Tra una notte di sesso con la nonna della promessa sposa del figlio e altre oscenità che non ho il coraggio di raccontare, il film segna il livello più basso a cui dovrebbe essere concesso di scendere. Ma siccome non c’è fine al peggio, è facile immaginare che Sandler riuscirà a superare se stesso in futuro, propinandoci film ancora più vergognosi e scadenti.

giovedì 23 ottobre 2014

I misteri della distribuzione



Avrete notato che ci sono week-end in cui escono contemporaneamente fino a 10 film. Quando le pellicole in uscita sono poche, non sono comunque meno di 5. C’è un’evidente sovrapproduzione; in altre parole, si fanno più film di quanti la gente ne riesca a vedere. La conseguenza è che molti film che meritano passano inosservati e altri finiscono per saltare addirittura il passaggio al cinema, uscendo direttamente in dvd.

Capita spesso ai seguiti di altre pellicole, come Tesoro, ci siamo ristretti anche noi (girato sull’onda del successo anni ’90 Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi) o Generazioni, ennesimo film della lunga saga di Star Trek.

Uno dei film che negli anni ’90 subì questo trattamento, è Fuga dalla Casa Bianca. Protagonisti della storia sono due ex Presidenti Usa di opposto schieramento politico, interpretati da Jack Lemmon e James Garner. L’attuale Presidente (Dan Aykroyd) vuole far ricadere su Lemmon la colpa di uno scandalo che lo riguarda. Nel momento che Lemmon convince l’amico-nemico Garner della sua innocenza, i servizi segreti cercano di ucciderli prima che riescano a dimostrare che il vero colpevole è l’attuale Presidente. Nonostante alcuni momenti di tensione, il film è soprattutto un concentrato di battute e comicità che mette a nudo alcuni dei problemi della politica americana, riuscito soprattutto grazie alla straordinaria abilità degli interpreti.
 
Rimane la sensazione che sarebbe stato ancora migliore (ed è già un ottimo film) se al posto di Garner ci fosse stato Walter Matthau, l’abituale controparte di Lemmon, ma i due sono così convincenti che non si perde più di un secondo a pensare Come sarebbe stato se.

Purtroppo in pochissimi lo conoscono anche tra i fan di Lemmon, proprio perché in Italia è uscito direttamente in home video. E un film così divertente, non volgare e pungente, avrebbe meritato gli onori del cinema.

domenica 19 ottobre 2014

Modelli sbagliati



È dall’inizio del nuovo millennio che i telefilm sono diventati un fenomeno di culto. I telefilm del Duemila sono – nella maggior parte dei casi – molto differenti dalle serie dei decenni precedenti. Più realistici, crudi (basta pensare ai vari Csi), ammantati spesso di un aria filosofica (vedi Lost), tecnicamente innovativi (come 24). Ma ciò che è maggiormente cambiato sono i valori dei protagonisti, la visione della vita e del mondo dei vari personaggi.

I telefilm rispecchiano la società e in questi ultimi quindici anni sappiamo bene che la massa è diventata sempre più cinica, disillusa, egoista. L’umanità e la generosità stanno andando scomparendo e i telefilm non possono che registrare e mostrare questo fenomeno.

Dottor House ne è un ottimo esempio. Medico brillante e preparato, dal punto di vista umano è un insensibile stronzo. Il problema è che piace. Il problema è che, in caso di bisogno, in molti vorrebbero al proprio fianco Gregory House. Negli anni ’60 i telespettatori impazzivano per il dottor Kildare. Sicuramente bravo e scrupoloso, ma soprattutto umano, gentile, cosciente che chi si trovava davanti era un essere umano prima che un paziente.

Come insegnava il Patch Adams del compianto Robin Williams, lo scopo della medicina è migliorare la vita, non posticipare la morte. E dato che morire purtroppo è inevitabile, preferisco un medico che mi consoli e mi accompagni nel grande passo rispetto a uno che non riesce a comprendere che vivere è qualcosa di più di avere un cuore che batte, due polmoni che respirano e del sangue che scorre nelle vene.

I telefilm rispecchiano la società, ma allo stesso tempo la influenzano. Diventano dei modelli. E modelli di cinismo ed egoismo, non fanno che peggiorare il nostro mondo.
 

martedì 14 ottobre 2014

Il fascino del male


 
Mi considero una persona per bene, generosa, sensibile. In una parola, buona. Eppure a volte mi capita di essere più attratto nei film e nei telefilm dal cattivo che dall’eroe. I personaggi malvagi hanno spesso un notevole carisma. Basta pensare al diabolico petroliere J.R. in Dallas o al capo della Spectre Blofeld, l’acerrimo nemico di James Bond.

Vedi Il Re Leone e, nonostante il cattivo Scar faccia quanto di più spregevole si possa immaginare (uccide il fratello e fa credere al nipote di essere il colpevole della morte del padre), ti esalti galvanizzato quando cantando espone il suo piano. Segui Il delitto perfetto di Hitchcock e sotto sotto speri che il colpevole (il viscido e ironico Ray Milland) se la cavi, dopo tutta la fatica che ha fatto per progettare un delitto che si è rivelato tutt’altro che perfetto.

Ed è (almeno in parte) dovuto al carisma della cattiva, il successo de Il segreto, la telenovela che ha spopolato in Spagna ma che ha soprattutto conquistato il pubblico italiano.

Il personaggio che spicca è proprio quello della perfida donna Francisca (interpretata da María Bouzas): vendicativa, acida, crudele, le pensa tutte per dividere suo figlio dalla sua innamorata, dal farla accusare ingiustamente d’omicidio a fingersi paralizzata. E nella seconda serie farà di tutto per non perdere la figlioccia (l’unica a cui vuole bene e che incomprensibilmente la ricambia), arrivando a qualsiasi bassezza per evitare che se ne vada per la sua strada.

Eppure se date un’occhiata su internet, esistono pagine facebook di fan della perfida donna. Perché spesso il male al cinema e in tv, anche se destinato a perdere, è più divertente del bene.