lunedì 24 febbraio 2014

La musica è vita



Quando si pensa ai mestieri del cinema solitamente si citano gli attori, il regista, il tecnico della fotografia, l’addetto al montaggio, i macchinisti e molti altri. Quasi tutti però dimenticano una delle figure più importanti: il compositore.
 
Cosa sarebbe un film senza colonna sonora? È la musica che guida le nostre emozioni e che ci porta a provare gioia, tristezza, ansia, perfino terrore. Provate a vedere un film dell’orrore senza sonoro. La sensazione di paura, quel Oh mio Dio! Vedrai che adesso l’ammazzano, si perdono. La musica in questi film ha la funzione di metterti sul chi vive. Quando la melodia vira verso un’atmosfera ansiogena sai già che il peggio sta per avvenire.
 
Ma la musica è essenziale per ogni film. Senza musica avrebbero lo stesso effetto le coltellate inflitte dall’assassino in Psyco? Sentiremmo la stessa ansia all’avvicinarsi della bestia ne Lo squalo? Ci esalteremmo allo stesso modo per le imprese di Indiana Jones?
 
A volte la musica viene composta per il film, come accadde per Momenti di gloria e per i sei capitoli di Rocky. Altre volte si decide di utilizzare brani già scritti. Si può optare per brani poco conosciuti ma che si prestano molto bene alla storia, come Unchained melody in Ghost, oppure brani che già fanno parte dell’immaginario collettivo come Il barbiere di Siviglia che apre Oscar – Un fidanzato per due figlie.
 
Discorso a parte per le splendide colonne sonore Disney che hanno vinto quasi ogni anno nel decennio Novanta il premio Oscar, da La Sirenetta a Pocahontas. Ed è stata proprio la Disney a fare il primo – e forse ancora oggi l’unico – omaggio alla colonna sonora. Facendola diventare un personaggio e dandole una forma, è apparsa in Fantasia (il film che più di ogni altro deve un grosso tributo alla musica) dove a seconda dello strumento che viene usato cambia forma e si muove in modo diverso. Perché anche se intangibile, la colonna sonora è spesso l’anima di un film.

domenica 23 febbraio 2014

Un amore lungo vent'anni


 
Il 13 aprile 1992 Raiuno trasmise per la prima volta Pretty woman. Gli ascolti furono buoni, più di 10 milioni di spettatori, ma per un film di successo era un dato abbastanza scontato. Quello che in Rai non si sarebbero mai aspettati di vedere era, con il passare degli anni e delle repliche, aumentare il gradimento e il successo che il pubblico conferiva a questa pellicola. Gli ascolti erano sempre ottimi, in discesa – non essendo più una Prima Tv – ma solo lievemente.

La storia – definita come una moderna versione di Cenerentola – è romantica e trasgressiva allo stesso tempo, con l’amore impossibile tra un affarista senza scrupoli (Richard Gere, che sulle donne ha sempre esercitato un certo fascino, si sa) e una prostituta (Julia Roberts, agli inizi di una sfavillante carriera). Tutto parte come un normale contratto d’affari. Lui la ferma per strada per chiederle un’informazione, lei sale in macchina e lo porta a destinazione. Lui ci ripensa e la invita a salire nel suo albergo. Una notte brava, che sarà mai? Ma il caso vuole che lui abbia bisogno di una ragazza per presenziare ad alcuni importanti appuntamenti di lavoro. Ed ecco la proposta: una settimana insieme, giorno e notte, tutto pagato. Un affare per lei, una soluzione perfetta per lui. Quello che entrambi non hanno messo in conto è di innamorarsi.

Il soggetto è l’ideale per una commedia romantica e a rendere memorabile il film contribuiscono la colonna sonora e i personaggi di contorno (su tutti il direttore dell’albergo, severo e complice, interpretato perfettamente da Héctor Elizondo).

Pretty woman è stato trasmesso 23 volte in 22 anni. È un evergreen, come i film di Don Camillo, quelli di Bud Spencer e Terence Hill o Il piccolo Lord a Natale (e a volte anche a Pasqua). Perché le buone storie vivono per sempre.

venerdì 21 febbraio 2014

L'amore non ha sesso


 
Quando pensiamo all’amore solitamente l’associamo ad una coppia di innamorati, ma l’amore è ancora di più, è un sentimento universale.

Boston Legal, telefilm in onda ogni domenica sera su Top Crime, è un ottimo esempio del vero amore. Il telefilm racconta le vicende di un gruppo di avvocati coinvolto in casi che vanno dal drammatico al farsesco.

William Shatner, l’ex capitano Kirk della serie Star Trek, interpreta l’avvocato Denny Crane, il socio anziano dello studio legale. Conservatore, repubblicano, patriota fino al midollo, Denny era un brillantissimo avvocato che col passare dell’età e il progredire dell’Alzheimer – che lui chiama malattia della Mucca pazza – ha ridotto le sue apparizioni in tribunale, mantenendo inalterato il record di vittorie (non ha mai perso un processo) e mostrando uno stile e una lucidità unica nelle sue rare arringhe. All’inizio della serie si trova a difendere l’avvocato Alan Shore (James Spader), licenziato dallo studio legale per cui lavorava. I due vincono la causa e Alan inizia a lavorare per lo studio di Denny, dando vita ad una delle più belle amicizia viste in un telefilm.

Alan e Denny sono diversi e uguali. Alan vota democratico, è un progressista, critica la guerra in Iraq. Entrambi si godono la vita, amano le belle donne, e hanno indubbiamente più vizi che virtù.

Il motivo per cui Boston legal merita di essere visto è proprio il rapporto tra Alan e Denny. In realtà non è amicizia, è amore. Dormono insieme, si abbracciano, si confidano con l’altro. Ma capiamoci: Alan e Denny sono eterosessuali convinti, anzi convintissimi. Nel loro rapporto non c’è niente di sessuale, non c’è la minima attrazione. Si capisce quanto il legame sia profondo dall’intesa che c’è tra i due. Magnifica la fine di ogni episodio, con Alan e Denny seduti nella terrazza del prestigioso studio legale, intenti a bere scotch e fumare sigari mentre parlano della vita.

Eppure il loro è amore, quello con la A maiuscola. Le cause si susseguono una dietro l’altra, le donne passano, le avventure finiscono, ma il loro legame c’è sempre, l’unica certezza delle loro vite. Perché come dice Denny ad Alan, Tutti abbiamo un solo amore, e il tuo sono io.

giovedì 20 febbraio 2014

Quando le ciambelle riescono col buco



Una delle pratiche che hanno preso sempre più piede nel mondo del cinema è quella di raccontare nuovamente una storia già messa in scena, ammodernando semplicemente l’ambientazione o utilizzando effetti speciali che all’epoca della realizzazione della pellicola originale ancora non esistevano. Sto parlando di quello che in gergo viene chiamato remake.

Fare un remake comporta solitamente entrate sicure – si utilizza una storia che il pubblico ha già dimostrato di apprezzare – a scapito della qualità. Generalmente il remake non è all’altezza dell’originale.

Uno dei pochi che addirittura lo supera è Sperduti a Manhattan, girato nel 1999. Steve Martin è un cinquantenne che ha appena perso il lavoro e che spera di ottenere un nuovo impiego nella Grande Mela. Parte per New York, dove la mattina seguente ha un appuntamento per un colloquio, ma all’ultimo momento la moglie (Goldie Hawn) decide di accompagnarlo. Dal momento della partenza, tutto comincerà ad andare storto. Martin e la moglie si ritroveranno a vivere la notte più assurda e iellata della loro vita. A questi due poveracci accade davvero di tutto: il loro aereo viene reindirizzato verso Boston per il maltempo, vengono rapinati, l’albergo in cui avevano prenotato non gli dà la camera e li butta fuori.
 
La pellicola, remake di Un provinciale a New York (con Jack Lemmon e Sandy Dennis), è più vivace dell’originale, una girandola di situazioni grottesche e al limite del ridicolo (memorabile il direttore dell’albergo John Cleese che, formale e intransigente con chiunque, aspetta la notte per chiudersi nella sua stanza e vestirsi da drag queen).

Probabilmente nel 1970, anno a cui risale l’originale, una comicità tanto fracassona e incalzante non sarebbe stata gradita dal pubblico, ma il film ha proprio nella velocità con cui accade una disgrazia dietro l’altra la sua forza. Ed è per questo che Sperduti a Manhattan è uno dei pochi remake migliori dell’originale, che forse, per l’epoca, era troppo avanti.

giovedì 13 febbraio 2014

A volte ritornano


 
Per coloro che erano bambini nei primi anni ’90 si sta preparando un salto indietro nel tempo. La Disney ha messo in cantiere un film live action, genere che ultimamente sta riscuotendo tanto successo dai film su Alvin superstar alle due pellicole con protagonisti i Puffi. La tecnica prevede di inserire personaggi dei cartoni animati nel mondo reale, facendoli interagire con persone in carne ed ossa. Ciò che colpisce è cosa la Disney porterà sul grande schermo: Cip e Ciop agenti speciali.

Il recupero di personaggi che vent’anni fa erano seguitissimi non è una novità, ma la Disney aveva sempre avuto la tendenza a considerare i successi del passato come un capitolo chiuso, cercando nuove strade piuttosto che ripercorrere quelle che anni prima avevano portato gloria e denaro. Che sia un sintomo della crisi d’idee?

Ci si chiede a chi possa essere rivolto un progetto come questo. I bambini di oggi non conoscono gli Agenti speciali e forse la serie non incontrerebbe nemmeno i loro gusti. Teoricamente il film potrebbe stimolare la curiosità di coloro che erano bambini vent’anni fa, ma quanti di questi (a parte me) andranno realmente al cinema ad assistere alla disfatta di Cip e Ciop?

Già, disfatta. Perché non è facile riproporre lo stesso spirito di quei cartoni in un nuovo film. Semplicemente perché i tempi sono cambiati. Se anche il film fosse un capolavoro, sicuramente finirebbe con lo scontentare i fan della serie, perché non rispetta tutti i topos del cartone (dal covo sull’albero, all’aereo usato dai protagonisti), perché l’adattamento italiano non è fedele a quello del 1989, o perché magari i doppiatori non sono gli stessi (cosa più che probabile, essendo passati cinque lustri).

Il recupero delle serie Disney degli anni ’90 è iniziato tre anni fa, quando la casa editrice Boom ha pubblicato in America dei nuovi fumetti su Darkwing Duck. L’anno scorso è stato realizzato un nuovo videogioco su DuckTales, la serie incentrata su Paperon de Paperoni che dette il via alla produzione delle altre serie a cartoni, da Cip e Ciop a TaleSpin. La Disney ha deciso di puntare su alcuni dei suoi maggiori successi, successi che fino a qualche anno fa snobbava, ma forse non è questo il modo per far rivivere i fasti del passato.

 

giovedì 6 febbraio 2014

Il fascino del vecchio continente




L’Europa ha da sempre un fascino particolare per gli americani. È il fascino del esotico, del paese lontano, ma è allo stesso tempo un ritorno alle origini dato che non c’è famiglia americana – a parte i pellerossa – che sia effettivamente nata in America e non emigrata.

Anche nei telefilm si nota la passione degli statunitensi per il vecchio continente. Molte serie hanno ambientato diversi episodi in giro per il mondo (un esempio per tutti è l’eroe del faidate Mac Gyver, concentrato soprattutto nei paesi satellite dell’ex Urss), ma poche sono quelle che effettivamente hanno organizzato una trasferta, producendo realmente un episodio all’estero.

Tra i primi ad affacciarsi a questa pratica c’è Colombo, che nel 1972 girò uno degli episodi della seconda stagione a Londra. Tra tour turistici di Colombo (arrivato nella capitale britannica per uno scambio culturale con Scotland Yard) e scorci del Big Bang, del ponte sul Tamigi e della cerimonia del cambio della guardia, l’episodio ha un’atmosfera tipicamente british, affidando il ruolo di antagonista del tenente ad una coppia di attori teatrali che uccidono il produttore del loro spettacolo.

La Gran Bretagna è la metà preferita delle trasferte americane, probabilmente perché il legame con gli Usa è sempre stato molto forte (per quanto pieno di contraddizioni). L’avvocato Matlock, protagonista dell’omonimo telefilm, si è trovato costretto a confrontarsi con le leggi e le procedure inglesi in un episodio prodotto nel 1986, mostrando tutta la sua idiosincrasia per le formalità pompose tanto care alla vecchia Inghilterra, dove giudici e avvocati indossano durante i processi parrucche da far invidia a Luigi XVI.

La tendenza è ancora attuale, dato che proprio lo scorso anno è stato girato un episodio della serie Psych a Londra: per l’occasione gli autori hanno confezionato un episodio che parodiasse il maghetto Harry Potter (prassi abbastanza frequente in Psych, che ha già preso in giro Indiana Jones e Alfred Hitchcock).

Caso a sé è invece un episodio di Perry Mason girato nel 1989 a Parigi. Nell’anno del centenario della tour Eiffel, Mason investiga sull’omicidio di un ex nazista, trovandosi a far luce su un mistero vecchio di 50 anni. Una delle rarissime trasferte in un paese non anglofono.

domenica 2 febbraio 2014

L'immagine del vecchio West


 
Uno dei concetti che più mi affascina è quello di immaginario collettivo. L’immaginario collettivo è l’insieme dei simboli e dei miti della cultura di una comunità. La morte raffigurata come un incappucciato con una falce in mano, i giapponesi costantemente armati di macchina fotografica, le streghe che volano sulla scopa e che vivono con un gatto nero. Gli esempi che si potrebbero fare sono molti, ed è facile scivolare dall’immaginario al pregiudizio (gli italiani mafiosi o gli americani che mangiano solo hamburger e patatine).

Con l’avvento della televisione e con lo sviluppo della globalizzazione, l’immaginario collettivo si è ampliato. Ci sono immagini e simboli che sono diventati universali come Babbo Natale o le isole tropicali – da Santo Domingo alle Hawaii – come luogo di fuga dal tran tran quotidiano. La pubblicità si basa in larga parte sull’immaginario collettivo – dal Mulino Bianco in cui immaginiamo Banderas intento a cuocere al forno gli Abbracci, all’Uomo del monte che ha detto sì – e la televisione e il cinema fanno nascere nuove figure che entrano a farne parte.

Ne sono ottimi esempi il tenente Colombo, immaginato perennemente in impermeabile stazzonato, il Padrino interpretato da Marlon Brando o i calci rotanti di Chuck Norris. Tutti li conoscono e tutti ne hanno un’immagine mentale.

Cinematograficamente parlando, l’esempio più adatto è John Wayne. Nei suoi 50 anni di carriera ha girato circa 150 film, di cui solo la metà circa erano western. Eppure John Wayne è universalmente il simbolo del western classico. Nel momento in cui si sente il suo nome, nella nostra mente compare l’immagine di un Wayne cinquantenne, appena sceso da cavallo, con cappello in testa e armato di pistoloni. Ce lo vediamo camminare con quella tipica andatura che aveva solo lui (e meno male) e con quella voce profonda e maschile che gli ha conferito il suo doppiatore Emilio Cigoli. Pur avendo girato numerosi film di guerra, svariate commedie e alcuni polizieschi, per tutti Wayne è il cowboy del Far West. E la corrispondenza è biunivoca: John Wayne rappresenta il western e il western rappresenta John Wayne. Potenza dell’immaginario collettivo.