venerdì 29 agosto 2014

Se si potesse fare a meno delle star...


 
Hollywood è famosa anche per i capricci degli attori. Da Sharone Stone che pretende che i suoi domestici spazzolino più volte al giorno la sua auto armati solo di pennello, a Johnny Depp che vuole che il suo camerino sia arredato con drappi orientali e candele profumate. Tra i più folli si annoverano Jim Carrey che pretendeva di portare sul set – a spese della Casa cinematografica, ovviamente – un cuoco personale per il suo iguana, e Val Kilmer che aveva fatto inserire nel suo contratto il divieto per chiunque lavorasse con lui di guardarlo (c’è da sperare che qualche tuttofare gli abbia “incidentalmente” rovesciato un caffè bollente sui pantaloni. Dopotutto sarebbe stato giustificabile, dato che poteva avvicinarsi al vanesio Val solo non alzando lo sguardo da terra).

Non stupisce che gli attori con meno pretese assurde siano anche i più capaci, da Tom Hanks a Jack Nicholson.

L’argomento deve aver particolarmente colpito il regista fantascientifico Andrew Niccol, dato che ha deciso di dedicare un film al sogno di molti registi: un film senza attori. In S1mone, un regista (interpretato dal carismatico Al Pacino), stufo di sottostare ai folli capricci degli attori, sostituisce la diva protagonista della pellicola che sta girando con un’immagine olografica costruita al computer. Il pubblico è entusiasta della nuova stella e lui si guarda bene dal distruggere il sogno, dal rivelare che la bella attrice non esiste.

Come sempre accade in questo genere di storie, la cosa prende dimensioni inaspettate. Il protagonista deve inventarsi ogni sorta di trucco per far sembrare reale una persona inesistente. Ed ecco che noleggia una stanza d’albergo in cui lascia lingerie e tracce di profumo femminile per convincere i giornalisti che la sua attrice ha passato lì la notte, o che mette al volante un manichino vestito da donna e coperto da grossi occhiali da sole per far credere alla sua ex moglie di aver davvero intravisto questa donna del mistero.

Divertente e con una svolta finale inaspettata, il film è una critica al divismo imperante, a tutti quelli attori che si comportano da bambini viziati anziché da star. Perché essere un divo è soprattutto una responsabilità.

sabato 16 agosto 2014

Grazie



Ci sono momenti in cui l’Umanità si stringe, unita da un dolore che prende e accomuna persone diverse per sesso, religione, colore della pelle e classe sociale. È stato così per gli attentati alle Torri Gemelle, per la morte di Papa Giovanni Paolo II, per certi versi anche per la dipartita di Nelson Mandela. Pochi avrebbero mai immaginato che una cosa del genere potesse accadere alla morte di un attore.

L’11 agosto Robin Williams ci ha lasciato. E come ha scritto su Twitter uno dei suoi figli, il mondo è più grigio senza di lui. Da quel giorno sento una solitudine che non dà segno di voler passare.

In molti hanno cercato di capire cosa l’ha spinto al suicidio, in troppi si sono sentiti in diritto di giudicarlo. Sicuramente tutti sono rimasti disorientati. Perché se c’era un uomo che non avresti mai creduto potesse suicidarsi, questo era proprio Robin Williams. Penso sia umano cercare una ragione, tentare di dare un senso a quella che si sembra una contraddizione. Non so perché Robin Williams si è suicidato e non contribuirò a questo rito di psicoanalisi collettiva. So solo che Williams non era semplicemente un attore: era un artista. E un artista non si può comprendere e inquadrare nei normali parametri che si riservano alla massa. Essere un artista è un dono e una maledizione, perché mentre ti mette in condizione di vedere il mondo da una prospettiva unica e privilegiata, non ti permette di condividere con nessuno la tua visione, perché nessuno è in grado di capirla.

Robin Williams fa parte del mondo interiore di chi, come me, è cresciuto negli anni ’90. In molti non comprendono il dolore per la sua morte, in tanti etichettano i suoi film come zuccherosi e buonisti, adatti solo ad un pubblico sotto i 17 anni. Sono quelli che a 17 anni sono morti dentro. Camminano, lavorano, parlano, ma la loro anima è morta. Sono coloro che hanno confuso il maturare con l’uccidere i sogni, il diventar grandi con il diventar cinici.
 
Piangiamo Robin Williams come, sono convinto, non piangeremo attori illustri come Al Pacino, Robert De Niro, Dustin Hoffman, perché ha insegnato alla mia generazione quale fosse la cosa più importante: il sentimento. I sentimenti, le emozioni, l’affettività come la parte più autentica dell’essere umano. Chi non mette al centro dell’esistenza il sentimento, è naturale che critichi Patch Adams, L’attimo fuggente, L’uomo bicentenario come semplicisti e buonisti. Non è in grado di capire che se dessimo ai sentimenti l’importanza che hanno, senza tante costruzioni e gabbie mentali, il mondo sarebbe più giusto, più bello, migliore. Molti tra coloro che invece lo capiscono, lo devono in buona parte a Robin Williams che in questo momento, ne sono certo, sta facendo ridere a crepapelle i nostri cari volati in cielo.

Ciao Robin, angelo tornato a casa.